Lettura condivisa: The Nature of Melancholy

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Messaggio  canterel II Lun Feb 24, 2020 8:01 pm

Mesi fa sono rimasto colpito da una tavola del pittore rinascimentale tedesco Lucas Cranach, che fa parte di una sua famosa serie di allegorie della Melanconia. Non so spiegare il motivo del mio interesse, ma la tavola che in passato avevo già visto senza reagire, questa volta ha suscitato in me un desiderio di cercare commenti e analisi dell’opera. Sono andato a cercare il famoso saggio di Klibansky, Panofsky e Saxl sulla melanconia, e ho riportato anche qui sul forum un paragrafo del testo con la spiegazione iconologica di alcuni elementi del quadro.

https://depressione.forumattivo.com/t303p75-arte#30322

Da lì, una serie di derive intertestuali mi ha portato ad imbattermi nel libro del quale oggi vorrei proporre una lettura condivisa, qui negli Off Topic.
E’ un’antologia curata da Jennifer Radden, una professoressa di filosofia e ricercatrice di origini australiane che si è specializzata nel campo degli studi sulla malattia mentale, la psicopatologia e la psichiatria.

https://philpeople.org/profiles/jennifer-radden?app=616

Il testo si intitola The Nature of Melancholy – From Aristotle to Kristeva (Oxford University Press, New York, 2000)
e traccia in forma divulgativa una genealogia del costrutto di Melanconia, con cenni alla storia della sua parentela con i disturbi depressivi della nosografia contemporanea. Il costrutto viene rintracciato a partire da alcune delle sue occorrenze più celebri nella letteratura scientifica e filosofica occidentale, dall’antichità fino a studi recenti posteriori a Freud, in ambito psichiatrico e psicoanalitico.
I contenuti dell’antologia rivestono un potenziale interesse storico-culturale specifico per le/gli utenti di questo forum, e perciò ho pensato di condividere la lettura in un thread ad essa dedicato, nella sezione Off Topic.

Lettura condivisa: The Nature of Melancholy Nevere10

Alcune avvertenze:
Sto leggendo il testo in inglese con piacere e senza fare troppa fatica – è un buon segno – ma non faccio il traduttore di mestiere e potrei inavvertitamente fare qualche errore di comprensione o qualche scelta lessicale infelice. Nel dubbio, allegherò citazioni dei punti critici del testo originale per consentire la verifica del messaggio originale dell’autrice.
Il testo è lungo circa 400 pagine ed è articolato in una prefazione, un saggio introduttivo e un’antologia di brani sulla melanconia in due parti. Con una periodicità non prefissata, la mia intenzione è quella di depositare nel thread il riassunto e i miei commenti su piccole sezioni del testo (comincerò dalla prefazione e dall’indice).
Non so se leggerò tutti i brani dell’antologia: più probabilmente ne salterò alcuni informando le/i lettrici/ori della scelta, in modo tale che esse/i possano anche chiedermi, con l’indice alla mano, di integrare la lettura saltata qualora ne fossero incuriositi.
Chi volesse partecipare attivamente a questa lettura condivisa può chiedermi i riferimenti per consultare direttamente il testo con un messaggio privato, e proporsi così per riportare la sua lettura di sezioni dell’antologia a sua scelta. È necessario leggere in inglese, ed è utile avere qualche nozione di storia, storia della filosofia e della letteratura, storia della psicologia e della psichiatria.
Va da sé che un altro modo di partecipare è pubblicare in questo thread i propri interventi, sotto quelli in cui sarà riversata la rielaborazione del testo, per esprimere pareri, suggerire collegamenti, chiedere o proporre approfondimenti sui punti che suscitano interesse.

A breve pubblicherò un post per rendere conto della lettura della prefazione, e un altro con l’indice dei titoli.


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Lettura condivisa: The Nature of Melancholy Empty Riassunto della Prefazione

Messaggio  canterel II Mar Feb 25, 2020 9:13 am

PREFAZIONE

Radden esordisce con l’affermare che la melanconia (Melancholia, malinconia: la confusione dei termini e le sottili differenze nella loro connotazione sia in italiano che in inglese si spiegano in gran parte con l’intrinseca ambiguità del concetto) ha rappresentato un’idea culturale centrale nella tradizione occidentale, utile a distinguere, spiegare e organizzare i modi in cui le persone vedevano se stesse e il mondo, e a definire norme sociali, mediche ed epistemologiche. Oggi invece è una categoria quasi insignificante.
Per fare una ricognizione della traiettoria compiuta dalla tradizione imperniata su questa categoria, la curatrice ha antologizzato alcune delle fonti più influenti apparse prima del saggio di Freud Lutto e melanconia (1917), che nella periodizzazione qui proposta costituisce uno spartiacque perché introduce un nuovo tipo di teorizzazione mentre, per altri versi, conclude una tradizione precedente. Quindi, la seconda parte dell’antologia presenta una ristretta selezione di brani sulla depressione clinica risalenti al secondo Novecento.

I criteri di scelta della curatrice sono la preferenza per brani di taglio descrittivo ed esplicativo piuttosto che prescrittivo, e la preferenza per brani più lunghi e rappresentativi di un determinato filone piuttosto che per una più varia e sfumata gamma di testi.
I testi sono presentati nell’ordine cronologico in cui sono stati scritti. Nell’antologia trovano posto le teorie degli umori dei medici greci, le speculazioni aristoteliche sul rapporto tra melanconia e genio, gli scritti dei padri della Chiesa sul peccato di accidia, i testi dei dottori arabi che hanno trasmesso le conoscenze mediche della Grecia antica agli europei, le riflessioni di sante del primo e del tardo Medioevo che collegano la melanconia all’esperienza femminile della clausura, brani di umanisti italiani ed inglesi del Rinascimento quali Ficino, Bright e Burton, speculazioni seicentesche sui rapporti tra melanconia, stregoneria e possessione demoniaca, le prime classificazioni settecentesche degli stati melanconici e i tentativi di spiegare la melanconia mediante le moderne scienze naturali, rappresentazioni della melanconia nelle tradizioni romantiche, simboliste e decadenti, i testi dei pionieri della psichiatria tra la fine del 18° e l’inizio del 19° secolo, e infine alcuni modelli interpretativi ed esplicativi del 20° secolo (teorie del lutto, teorie delle cause culturali della depressione e teorie biomediche).

Le ragioni che hanno spinto la curatrice ad assemblare questa raccolta risiedono nella recente disponibilità di edizioni critiche in lingua inglese delle fonti trattate, nell’intenzione di applicare a questo corpo di testi nuove metodologie e approcci epistemologici e di porre queste tradizioni a confronto con la crescente produzione di letteratura non medica sulla depressione, nonché nell’opportunità di assumere e mettere alla prova un approccio interdisciplinare per l’analisi di un costrutto complesso che si è in larga parte sviluppato in epoche durante le quali non erano in uso le partizioni accademiche odierne tra i campi disciplinari. Questo approccio interdisciplinare (specialmente riferito al materiale medico e scientifico) si fa forte degli esempi forniti da Michel Foucault, Sander Gilman, i Women’s studies e i Cultural studies.

L’antologia vuole anche mettere in luce la consistenza e ricorsività nel tempo di molti elementi del discorso sulla melanconia, che si ripresentano come una catena di rimandi attraverso i secoli e attraverso differenti ambiti linguistici, culturali e scientifici. In particolare colpisce la lunga influenza della teoria ippocratica degli umori, come pure la coesistenza e l’accumulo di significati contraddittori sotto la definizione di melanconia (essa è presentata a più riprese sia come un disturbo dell’organismo sia come una disposizione comune del carattere) e soprattutto il fatto che la tensione tra i significati contraddittori non appare significativa fino a che non inizia a svilupparsi il più recente paradigma medico clinico, che apre la strada alla psichiatria e al passaggio dal concetto di melanconia a quello di depressione.

L’antologia è corredata da un apparato iconografico che mostra le rappresentazioni rinascimentali della melanconia nei dipinti e nelle incisioni, con corposi rimandi al saggio Saturno e la Melanconia di Klibansky, Panofsky e Saxl, e all’Iconologia di Cesare Ripa. Sono rappresentati anche pittori ed artisti dei secoli successivi, fino ad arrivare alle tavole più realistiche e alle fotografie che corredano i primi manuali di psichatria.
Non intendo soffermarmi sulla descrizione dettagliata di questo apparato iconografico perché Radden ammette il debito nei confronti degli autori suddetti (molte delle tavole sono riportate da Saturno e la Melanconia) e l’uso che fa di queste immagini è chiaramente strumentale, per illustrare ipotesi e ragionamenti sviluppati piuttosto nell'analisi dei testi scritti.

Radden infine avvverte che la ristretta selezione di testi del Novecento sulla depressione vuole solo accennare ad alcune teorie senza la pretesa di presentarne una gamma completa, e senza voler suggerire una continuità a-problematica tra queste teorizzazioni e le tradizioni precedenti. Melanconia e Depressione appaiono come costrutti simili ma probabilmente non equivalenti.
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Messaggio  canterel II Mar Feb 25, 2020 9:30 am

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Lettura condivisa: The Nature of Melancholy Empty Presentazione del saggio introduttivo

Messaggio  canterel II Mer Feb 26, 2020 12:41 pm

Prima dell’antologia in due parti Radden propone la sua introduzione, che con le sue 50 cartelle costituisce il testo più lungo di tutto il volume. Il saggio però ha delle chiare partizioni interne ed è costituito da 4 parti. Le prime due parti, che sono anche le più lunghe, sono a loro volta divise in sottosezioni, ciascuna delle quali ha un suo titolo in corsivo.
In esergo, prima di mostrare l’articolazione del testo, Radden pone una serie di domande attorno alle quali si sviluppa il resto del saggio, e che traduco sommariamente qui.

Durante il Rinascimento, con il termine di melanconia ci si riferiva ad un concetto equivalente a quello in uso presso i medici dell’antica Grecia, oppure ad una parte della normale esperienza umana distinta dal disturbo che i medici greci avevano identificato?
Quanto di ciò che è affermato o implicato nelle descrizioni della melancholia come disordine prefigura ciò che in seguito si è conosciuto come depressione clinica?
Dovremmo accettare l’identificazione tra le descrizioni antiche della malinconia e della melancholia e quelle contemporanee della depressione, termine ancora non usato comunemente prima della fine del 19° secolo?
Radden osserva che su queste domande si danno opinioni molto contrastanti, per non dire che nella letteratura medica e psichiatrica spesso non sono neppure affrontate, oppure le risposte sono date per scontate.
Talvolta, la documentazione sugli stati melanconici è considerata sufficiente a dimostrare la costanza e universalità del disturbo, indipendentemente dal nome usato per descriverlo.
Altri pareri, invece, negano perfino la congruenza tra i primi usi del termine melanconia e le prime descrizioni degli stati melanconici, oppure (contro l’opinione della curatrice) si spingono a dire che fino all’epoca delle guerre napoleoniche il termine indicasse di volta in volta un’accozzaglia di stati patologici diversi con l’unico comune denominatore della presenza di pochi deliri (o del cosiddetto “delirio parziale”), e che tristezza e umore basso non fossero neppure considerati sintomi caratterizzanti. L’affermazione che Radden considera non plausibile proviene in particolare da un testo curato dallo psichiatra G. E. Berrios e dallo storico Roy Porter (A History of Clinical Psychiatry: The Origin and History of Psychiatric Disorders, 1995, New York University Press).
Melanconia e depressione sembrano quindi concetti in gran parte penetrati dagli assunti impliciti del mutevole ambiente culturale in cui il discorso su tali categorie si sviluppa.
Fino alla fine del 19° e all’inizio del 20° secolo, il termine melanconia sembra coprire molte e diverse cose: umore instabile, disturbi psichici di vario grado, risposte normali agli stimoli ambientali, tratti del carattere. I testi scritti fino ad allora mostrano la coesistenza di significati oggi inconciliabili. Solo con la nascita della moderna psicologia e della psichiatria vediamo separarsi la malinconia multiforme dell’esperienza umana comune dalla melanconia patologica (o melancholia) e dalle categorie cliniche della depressione, e assistiamo alla rapida delimitazione e trasformazione del significato del termine.
Alcune strutture gnoseologiche che plasmano il significato contemporaneo della melanconia, come la distinzione tra stati affettivi e stati cognitivi, hanno acquistato salienza solo a partire dal 16° e 17° secolo. Altre, come la categoria degli attributi o stati essenzialmente soggettivi, solo con la nascita della psicologia scientifica e della psichiatria.

Dopo questo cappello, il saggio procede con la sua articolazione in 4 parti, che riassumerò una dopo l’altra nei prossimi aggiornamenti di questo thread.
Qui sotto, per un migliore orientamento, elenco la mia traduzione e numerazione dei titoli delle sezioni e sottosezioni.


Ultima modifica di canterel II il Mer Feb 26, 2020 1:00 pm - modificato 1 volta.
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Lettura condivisa: The Nature of Melancholy Empty L'articolazione del saggio introduttivo

Messaggio  canterel II Mer Feb 26, 2020 12:51 pm

INTRODUZIONE: Dagli stati melanconici alla depressione clinica

1. Quattro temi negli scritti sulla melanconia

Melancholia: uno o molti significati? Una o molte condizioni?
Paura e tristezza (“senza causa”)
Malinconia, genio ed energia creativa
Melanconia, indolenza, lavoro e dominazione



2. La melanconia attraverso il nostro sguardo contemporaneo

Malinconia, Melancholia e Depressione come stati affettivi e come patologie di Kraepelin
Melanconia come condizione essenzialmente soggettiva
Considerazioni ontologiche
Stati melanconici come stati d’animo
Il genere: la soggettività depressiva come soggettività femminile
Narcisismo, autosvalutazione e perdita



3. Dalla malinconia alla melancholia e alla depressione

4. A partire da Freud: la depressione clinica


Ultima modifica di canterel II il Mar Mar 10, 2020 11:23 am - modificato 1 volta.
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Lettura condivisa: The Nature of Melancholy Empty Introduzione: Prima parte

Messaggio  canterel II Ven Feb 28, 2020 2:59 pm

INTRODUZIONE - Prima parte: 4 temi negli scritti sulla melanconia

Melancholia: uno o molti significati? Una o molte condizioni?

Se si sono accumulati diversi e opposti significati associati ai termini melanconia, malinconia e melancholia, allora questi potrebbero riferirsi a fenomeni distinti.
Radden prende ad esempio il celebre Dictionary of the English Language pubblicato nel 1755 da Samuel Johnson, che propone tre distinte definizioni della melanconia, due delle quali indicano disturbi, mentre una designa stati mentali comuni e non patologici.
La prima definizione si riferisce a qualunque malattia risultante da una discrasia della bile nera, nel solco della tradizione di Galeno e Avicenna, comprendendo quindi disturbi eterogenei come l’epilessia e l’apoplessia; la seconda connota un tipo di follia lieve o “parziale”, contraddistinto da fissazione e mania limitata ad un ambito ristretto che non compromette la lucidità generale, variamente descritta nel secolo di Johnson e classificata come Tristimania dal precursore della psichiatria americana Benjamin Rush (1812).
L’ultima definizione descrive un “temperamento” o un “carattere” cupo e pensoso ma non specificamente correlato a una patologia.

Le descrizioni medievali della melanconia nel solco della teoria umorale tendono a sfumare le distinzioni tra stati patologici e non patologici, e non è chiaro quanto nettamente e accuratamente le idee eterogenee sulla melanconia fossero distinte prima del Settecento. La nozione di melanconia “adusta” o bruciata è servita talvolta a marcare gli stati patologici, con riferimento ai fumi o vapori interni prodotti dagli organi ipocondriaci, ritenuti agenti responsabili dell’ottenebramento del cervello e delle sue funzioni.
Si sono fatti nel passato dei tentativi di distinguere le forme cliniche della melanconia, ma nessuno di questi si è imposto nell’uso, e resta dubbio se la necessità di classificazioni più precise fosse avvertita. Anche nelle illustrazioni di epoca elisabettiana le connotazioni della melanconia appaiono elusive ed ambigue, e comprendono tratti positivi o neutri come il carattere riflessivo e intellettuale. L’irriducibile eterogeneità dei tratti è colta da Timothie Bright, autore del primo trattato in lingua inglese sull’argomento, pubblicato  nel 1586. Consapevole dell’ambiguità sembra anche Shakespeare, che nella commedia As you like it (VI, I) enumera un’infinita varietà di forme di melanconia per ottenere un effetto comico:

I have neither the scholar's melancholy, which is emulation;
nor the musician's, which is fantastical; nor the courtier's,
which is proud; nor the soldier's, which is ambitious; nor
the lawyer's, which is politic; nor the lady's, which is nice;
nor the lover's, which is all of these; but it is a melancholy
of mine own, compounded of many simples, extracted
from many objects.

L’umanista Robert Burton, autore della Anatomia della malinconia (1621), dichiara la sua frustrazione conseguente al tentativo di cogliere l’elemento unificante delle forme melanconiche, che paragona ai modelli di ordinamento dello Stato nella filosofia politica: se ne descrivono e celebrano le forme pure in letteratura, ma a ben vedere si praticano sempre forme miste e temperate.  
Una strategia alternativa per ridurre l’eterogeneità è stata quella di provare a delimitare il campo della melanconia indicando ciò che essa non è: per esempio Bright, e per altri versi Teresa d’Avila hanno affermato la demarcazione tra la sofferenza melanconica e le sofferenze morali: la prima sarebbe derivata da un male del corpo, e per santa Teresa sarebbe opera del diavolo, le seconde invece sarebbero ferite della coscienza, direttamente ispirate da dio.

A petto della lunga tradizione della melanconia, e della centralità che gli autori di volta in volta le hanno assegnato pur non riuscendo a darne definizioni coerenti e unitarie, è possibile sostenere l’opportunità di considerare l’oggetto della questione come una cosa, piuttosto che molte cose diverse. La curatrice intende avvalersi di “intuizioni della filosofia contemporanea” (Foucault, forse Wittgenstein) per affermare tale possibilità, correlandola alla straordinaria longevità dei modelli esplicativi basati sulla teoria degli umori, o in alternativa ai modelli astrologici e sovrannaturali. Tali modelli, ancorché basati su principi falsi o autoevidenti, hanno potuto fornire nella loro vaghezza delle cause generali (lo squilibrio degli umori, l’influsso di Saturno, l’influsso diabolico…) per una pletora di fenomeni, comportamenti e dimensioni irrelate ricadenti nella definizione di melanconia. Ma anche a prescindere dalla disponiblità di cause generali, questi modelli avrebbero soprattutto fornito al concetto una “unità simbolica”, cioè (secondo un’idea di Foucault) un’unità conferita da costellazioni abbastanza stabili di associazioni tra qualità in rapporto analogico tra di loro, ricorrenti nei discorsi sulla soggettività melanconica e sull’umore (il freddo, il colore nero, la pesantezza, la secchezza). La forza persuasiva di queste associazioni qualitative, riposante su fantasie ancestrali, avrebbe determinato la resistenza di modelli esplicativi come la teoria degli umori ancora nel 17° secolo, dimostrandosi più forte dei criteri empirici già integrati nel paradigma scientifico dell’epoca. Le relazioni tra le qualità, svincolate dalla necessità di riferirsi ad una causa sostanziale, avrebbero costituito da sole un dispositivo epistemologico capace di rendere percepibile una sorta di coerenza con sue proprie leggi di trasmissione, sviluppo e trasformazione, mentre non hanno definito né sintomi né cause soggiacenti degli stati melanconici. I tratti eterogenei potevano ricadere nella stessa definizione sulla base di un’aria di famiglia.
L’unità simbolica avrebbe poi resistito anche alla progressiva decadenza delle teorie degli umori, scalzate dall’affermazione piena dei modelli meccanicisitici, i quali consentivano però di costruire nuove analogie qualitative (rimpiazzando i vapori atrabiliari con l’idea, per esempio, di una circolazione rallentata nel paziente).

All’alba del 19° secolo i riferimenti alla teoria degli umori sono totalmente svaniti, e nelle descrizioni di Pinel non sembra più agire neanche l’unità simbolica dei tratti qualitativi: la sua nosografia intende basarsi unicamente sull’osservazione clinica di segni e sintomi e su una definizione concisa del disturbo (“delirio parziale” o “delirio limitato ad un solo oggetto”), rinunciando anche a individuarne la causa soggiacente (per Pinel sono ammissibili molte cause di diversa natura: dalle mestruazioni alla forma del cranio fino ai fattori morali). Nonostante lo sforzo di razionalizzazione, Pinel finisce con il raccogliere nella descrizione della melanconia una quantità di tratti e sintomi tale da formarne un’immagine non meno composita di quelle restituite dagli autori dei secoli precedenti.

https://it.wikipedia.org/wiki/Teoria_umorale
https://it.wikipedia.org/wiki/Samuel_Johnson
https://it.wikipedia.org/wiki/Benjamin_Rush
https://en.wikipedia.org/wiki/Timothie_Bright
https://it.wikipedia.org/wiki/Robert_Burton_(saggista)
https://it.wikipedia.org/wiki/Teresa_d%27Avila
https://it.wikipedia.org/wiki/Philippe_Pinel


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Lettura condivisa: The Nature of Melancholy Empty Introduzione: Prima parte (2)

Messaggio  canterel II Sab Feb 29, 2020 12:26 pm

INTRODUZIONE - Prima parte: 4 temi negli scritti sulla melanconia

Paura e tristezza (“senza causa”)

Nei primi testi della tradizione ippocratica la melanconia implica paura e tristezza, e questo vissuto soggettivo è descritto con poche variazioni nel corso dei secoli. Per Galeno (nel De Locis Affectis) Ippocrate ha classificato correttamente i sintomi della melanconia in due gruppi, paura e disperazione: infatti sono questi i tratti esibiti comuni a tutti i pazienti, al di là della varietà di comportamenti. Similmente, questi tratti sono riconosciuti in Bright (1586) e Burton.
Nel 1672 Thomas Willis (nel De Anima Brutorum) tenta di darne una spiegazione scientifica, senza mettere in dubbio la centralità di questi sintomi. La melanconia sarebbe un disturbo che non affligge soltanto il cervello ma anche la regione del cuore e del sangue che di lì è pompato verso il resto del corpo. Se il delirio si produce nel cervello, la paura e la disperazione invece hanno origine nel petto.
Nell’Ottocento, lo psichiatra francese Esquirol nella sua nosografia ridefinisce la melanconia con il nome di lipemania, ovvero una malattia cerebrale  sostenuta da "una passione di un carattere triste, debilitante oppure opprimente".
Numerose evidenze si oppongono quindi alla conclusione di Berrios e Porter (1995) già avversata da Radden all'inizio del saggio, secondo la quale tristezza e paura non sarebbero state considerate tratti centrali prima dell’epoca napoleonica.

Sulla scorta dei documenti si potrebbe invece sostenere che nella lunga tradizione della melanconia esse siano certamente tratti centrali e caratteristici, anche se non sempre necessari e sufficienti per la diagnosi, anche alla luce delle teorie novecentesche della depressione clinica che talvolta sostengono la possibilità di una diagnosi in assenza di qualsiasi vissuto soggettivo significativo riportato dal paziente.
Questi tratti di tristezza e paura sono stati poi frequentemente descritti come ingiustificati o non sufficientemente motivati dalle circostanze (aspetto che sarà discusso più avanti nel saggio).

https://it.wikipedia.org/wiki/Galeno
https://it.wikipedia.org/wiki/Thomas_Willis
https://it.wikipedia.org/wiki/Jean-%C3%89tienne_Dominique_Esquirol


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Lettura condivisa: The Nature of Melancholy Empty Introduzione: Prima parte (3)

Messaggio  canterel II Dom Mar 01, 2020 5:54 pm

INTRODUZIONE - Prima parte: 4 temi negli scritti sulla melanconia

Malinconia, genio ed energia creativa

Un terzo aspetto emergente riguarda il legame supposto della melanconia con una qualità compensatoria di raffinatezza intellettuale, genio o energia creativa. L’argomento viene per la prima volta alla ribalta con una famosa domanda attribuita ad Aristotele nei Problemi:

Perché coloro che sono stati straordinari nella filosofia, nella politica, nella poesia o nelle varie arti erano dei melanconici, o addirittura erano affetti dalle malattie atrabiliari?
(Pseudo-Aristotele, Problemi, XXX, 1)

Da qui in poi il tema attraversa tutta la tradizione, con alterne fortune: si fa molto forte nel clima dell’umanesimo e del Rinascimento italiano - che introduce il concetto del “genio”, solamente prefigurato da Aristotele - e ritorna a porsi fino al Settecento, ma con sottili slittamenti. Da agente diretto dell’espressione geniale, la melanconia passa talvolta ad essere percepita come l’effetto collaterale nocivo di essa, come “spleen”. Agli albori dell’Ottocento si riaffaccia il motivo del genio come compensazione del melanconico – per esempio nel nobile ritratto che Delacroix fa del poeta Tasso – ma nello stesso periodo la malinconia come temperamento comincia a separarsi più nettamente dalla melancholia patologica.

Documentata nel saggio di Klibansky, Panofsky e Saxl (1964), e importante per la sua influenza, è la glorificazione del genio malinconico da parte di Ficino e del circolo neoplatonico di Firenze. La melanconia deve integrarsi con alcune idee nuove che sono centrali nell’ambiente culturale fiorentino: l’assunzione cristiana del libero arbitrio, l’importanza accordata all’astrologia e quindi alla nascita sotto il segno di Saturno (creduto il più elevato dei pianeti e fonte delle più alte qualità spirituali), e la nuova categoria dell’uomo di genio, che recupera il suggerimento aristotelico della correlazione tra grandi personalità e melanconia. Questi temi informano la tradizione pittorica e figurativa come appare evidente considerando le incisioni di Dürer e di Cesare Ripa nelle quali il melanconico è circondato da libri o strumenti scientifici, e riecheggiano poi nella letteratura inglese ed europea successiva - Milton, Bright, Burton, fino alle correnti letterarie a cavallo tra Settecento ed Ottocento.
La sofferenza del melanconico è idealizzata, associata a un senso di grandezza e perfino considerata gradevole. Si consente all’idea di un uomo melanconico più prossimo al sublime e alla profondità di spirito rispetto all’uomo comune.

Mentre il Romanticismo europeo glorifica la sensibilità del melanconico, la psichiatria coeva indaga la natura ciclica dei disturbi affettivi. La melanconia patologica può mostrare il succedersi alterno di fasi di disperazione e fasi di tono elevato, energia e creatività. La letteratura medica antica aveva di tanto in tanto notato le fluttuazioni dell’umore, ma in genere melanconia e mania erano state classificate come due disturbi distinti, e rappresentavano con la frenite acuta le tre più ampie categorie dell’universo dei disturbi psichici.
Non così nell’Ottocento, con l’approfondirsi degli studi sugli stati affettivi: Pinel (1806), pur distinguendo mania e melanconia, indaga la possibilità che una protratta condizione melanconica possa degenerare in una mania e riferisce di radicali alterazioni del carattere a seguito delle quali pazienti già trattati come melanconici diventano maniaci.
Secondo Heinroth (1818) Boerhaave aveva sostenuto l’ipotesi, poi affermata anche da Esquirol, che la mania fosse nient’altro che un grado acuto di melanconia, mentre il medico tedesco preferisce considerarle due disturbi distinti e propende piuttosto per l’idea che la mania possa sfociare in melanconia.
Baillarger e Falret, due allievi di Esquirol, hanno separatamente proposto (1854) la classificazione di un nuovo disturbo, distinto sia dalla mania che dalla melanconia e caratterizzato da fasi cicliche di stati maniacali e stati depressivi, che i due chiamano rispettivamente Folie à double forme e Folie circulaire. Questo disturbo acquisterà centralità nella nosologia psichiatrica del secondo Ottocento, fino ad essere inserito nella sesta edizione del Compendio di Kraepelin sotto la voce dei disturbi maniaco-depressivi, nella cui categoria ricadono anche condizioni non bipolari come la depressione e la melanconia. In tal modo Kraepelin avalla l’ipotesi, poi abbandonata nei manuali diagnostici del Novecento (es. il DSM nelle sue successive edizioni), che tutti i disturbi dell’umore siano potenzialmente ciclici o bipolari.

Le relazioni tra circolarità e polarità dei disturbi affettivi restano ambigue e incerte, ma oggi il disturbo bipolare si colloca di solito a fianco della depressione unipolare e all’interno del gruppo più ampio dei disturbi affettivi o dell’umore.
Per lo più, insieme al declino del termine melanconia si è consumato anche quello dell’idea della relazione privilegiata tra stati depressivi e potenza intellettuale o creativa.

E’ interessante però rilevare che la rinnovata attenzione presente per il disturbo bipolare si accompagna ancora all’enfasi portata su aspetti di genialità e creatività compensativa almeno nelle meno severe condizioni ipomaniacali e perfino, in taluni casi, nelle fasi maniacali attraversate dai pazienti maniaco-depressivi. Lontani dall’idea dell’indesiderato sottoprodotto splenetico del carattere sensibile, cara alla cultura settecentesca, ci sembra piuttosto di assistere talvolta ad un ritorno della glorificazione rinascimentale degli stati depressivi integrati nel temperamento artistico (come si vede in Kay Redfield Jamison, 1993, Touched with Fire: Manic-Depressive Illness and the Artistic Temperament. New York: Simon and Schuster).

https://it.wikipedia.org/wiki/Problemata
https://openlibrary.org/works/OL2237560W/Saturn_und_Melancholie
https://it.wikipedia.org/wiki/Marsilio_Ficino
https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Delacroix,_Tasso.jpg
https://it.wikipedia.org/wiki/Herman_Boerhaave
https://it.wikipedia.org/wiki/Johann_Christian_August_Heinroth
https://it.wikipedia.org/wiki/Jules_Baillarger
http://www.treccani.it/enciclopedia/jean-pierre-falret/
https://it.wikipedia.org/wiki/Kay_Redfield_Jamison


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Lettura condivisa: The Nature of Melancholy Empty Introduzione: Prima parte (4)

Messaggio  canterel II Lun Mar 02, 2020 10:36 am

INTRODUZIONE - Prima parte: 4 temi negli scritti sulla melanconia

Melanconia, indolenza, lavoro e dominazione

Un’altra tipica associazione della melanconia è quella con la pigrizia, il tedio aristocratico e cortigiano, e con il valore curativo del lavoro e dell’azione. Questi temi sono esplorati dal sociologo tedesco contemporaneo Wolf Lepenies, e ricorrono almeno a partire dalla famosa massima di Robert Burton (sempre tratta dalla sua Anatomia della melanconia del 1621) per il quale non c’è più grande causa della melanconia che l’indolenza, e non c’è cura migliore del lavoro.

Lepenies (nel suo saggio Malinconia e società, 1992) si è impegnato a dimostrare che la melanconia, o almeno una forma snervante di nostalgia, è il destino di intere classi di popolazione spinte all’indolenza a seguito di ristrutturazioni sociali, politiche ed economiche.
Quello melanconico, da comportamento tipico della borghesia si sarebbe trasformato in abito caratteristico solamente di una sua frazione, l’intellighenzia nomade, impotente o indisposta ad integrarsi nel nuovo ceto produttivo con l’avvento del capitalismo che ha dissolto nell’azione la riflessione, e con essa l’incentivo a diventare melanconici.
Che abbracciamo o meno l’analisi fatta da Lepenies, resta vero che la scrittura dell’età moderna diffonde a ripetizione la prescrizione del lavoro come contravveleno alla melanconia. Benjamin Rush (1812) è tra i primi a raccomandare la terapia occupazionale, poiché l’essere umano sarebbe fatto per l’azione. Simili indicazioni nella letteratura medica provengono dal capostipite degli autori di manuali di auto-aiuto, lo scozzese Samuel Smiles (1859), come pure da Janet e Freud; anche se d’altra parte Kraepelin propone la cura del riposo, specialmente per le donne melanconiche dei ceti medi ed elevati.
Occorre però tenere conto del pregiudizio circa l’inettitudine femminile al lavoro nella cultura borghese dell’Ottocento: emerge infatti nelle ultime decadi di quel secolo la connotazione di genere della melanconia, e la più generale tendenza ad attribuire un carattere femminile ai disturbi psichici.
 
La scrittrice femminista americana Charlotte Perkins Gilman offre nel 1913 un resoconto ironico della sua esperienza come paziente sofferente di continui esaurimenti nervosi, probabilmente nevrastenica (il confine tra nevrastenia e depressione non è chiaro nella sua epoca), a cui viene prescritta la cura del riposo assoluto in regime di sovralimentazione. Il dottore le raccomanda una vita domestica con l’abbandono di qualsiasi attività artistico-letteraria e l’indicazione di non superare le due ore giornaliere di vita intellettuale. Questo regime porta la paziente a costeggiare il collasso psichico finché lei non decide di interrompere la cura e riprendere le sue occupazioni, allontanandosi dalla vita accidiosa e parassitaria che fin lì ha soltanto peggiorato il suo stato.

Un altro motivo collegato alla relazione tra melanconia e indolenza è quello dell’effetto del lavoro faticoso e alienante, e dell’oppressione. La terapia occupazionale cui si è fatto cenno prima è infatti basata sull’assunto di un’attività significativa, gratificante, mentre per esempio la letteratura femminista del Novecento talvolta spiega la depressione delle donne con il loro inserimento forzato in un sistema di sfruttamento e dominazione.

I quattro temi che abbiamo fin qui discusso ricorrono nei brani dell’antologia. Cosa significhi questa ricorrenza, avverte Radden, è però un’altra questione. È necessario adottare prudenza contro l’idea che la ricorrenza in letteratura sia in sé una prova bastante dell’immutabilità della condizione di volta in volta definita come melanconia – un’idea basata sul modello delle malattie fisiche.
Bisogna soprattutto considerare che tra tutte le descrizioni raccolte, prima di quelle di Kraepelin poche si avvicinano anche vagamente a ciò che oggi riconosciamo come osservazione clinica.
Il ruolo di precursore assunto da Emil Kraepelin rispetto ai sistemi di classificazione delle malattie mentali diffusi nel 20° secolo sarà discusso nella seconda parte del saggio introduttivo.

https://it.wikipedia.org/wiki/L%27anatomia_della_malinconia
https://en.wikipedia.org/wiki/Wolf_Lepenies
https://it.wikipedia.org/wiki/Samuel_Smiles
https://it.wikipedia.org/wiki/Charlotte_Perkins_Gilman


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Lettura condivisa: The Nature of Melancholy Empty Introduzione: Seconda parte

Messaggio  canterel II Mer Mar 04, 2020 11:16 am

INTRODUZIONE - Seconda parte: La melanconia attraverso il nostro sguardo contemporaneo

Melanconia, Melancholia e Depressione come stati affettivi e come psicopatologie nel manuale di Kraepelin

A prescindere dalle altre loro connotazioni, melanconia e depressione sono oggi per lo più considerate come stati sofferti dall’individuo e non come condizioni volontariamente ricercate.
Le nostre categorie della mente sono inquadrate nella suddivisione delle facoltà che si è consolidata solo nella filosofia e nella psicologia a partire dal 17° secolo. Nella psicologia delle facoltà psichiche, distinte funzioni come il pensiero, l’immaginazione, la sensazione, la volizione erano concettualizzate, se non spiegate, postulando una facoltà corrispondente a ciascuna di esse.
Altre culture, nonché quella occidentale in epoche più antiche, hanno proposto differenti suddivisioni della mente. Perciò, di fronte ai testi premoderni di questa antologia occorre fare attenzione all’assunzione implicita della divisione delle facoltà, in base alla quale la depressione è oggi considerata uno stato d’animo o una passione, non soggetta al controllo della volontà. Il confronto tra testi più antichi e più moderni può farci riconoscere l’influenza di questi modi di strutturare e suddividere stati mentali e abilità.
Per esempio, consideriamo i primi riferimenti medievali al peccato dei monaci noto come accidia (acedia) e all’analoga condizione colpevole di scoramento o disperazione nota come tristitia: gli studiosi discutono della posizione di queste affezioni rispetto alla melanconia, ma la loro prossimità al costrutto è innegabile.
In seguito, l’accidia è stata anche identificata con il peccato di indolenza, o desidia.
Nella trattazione di Giovanni Cassiano, l’accidia appare chiaramente come una deviazione a cui si deve resistere. Il vero cristiano deve impegnarsi per espellere questo male da sé, combattere questo spirito maligno. Se l’accidia è descritta come una tentazione o un peccato, allora essa ricade tra i comportamenti che un atto di volontà può prevenire. Data la parentela tra accidia e melanconia, forse anche quest’ultima anticamente non era intesa come una condizione involontaria. Dovremmo concludere che l’accidia fosse uno stato sul quale il paziente esercitava controllo? Non proprio. Se il suo più tardo inserimento nel novero dei peccati capitali indicava una chiara sanzione morale contro di essa, i manuali canonici penitenziali diffusi nel 13° secolo suggeriscono spesso l’analogia tra confessione e guarigione, implicando così che la colpa del sofferente fosse da intendersi più come un male curabile che come un crimine da castigare. L’accidia non sarebbe allora mai stata ritenuta come una condizione pienamente controllabile, ma piuttosto come uno stato intermedio tra malattia e cattiva abitudine. Essa resiste alle categorie moderne a cui tendiamo a ricondurla.

Le prime suddivisioni delle facoltà psicologiche - come quella tra pensiero e immaginazione - si riconoscono a volte nelle classificazioni settecentesche, ad esempio in Kant. Ma nel secolo successivo acquista grande importanza la partizione tra le facoltà cognitive e quelle affettive. La categoria delle facoltà affettive sembra avere influenzato una fondamentale suddivisione della psichiatria, con importanti conseguenze sulla nuova concezione della melanconia e della depressione. Si tratta della demarcazione tra i disturbi dell’umore (che includono la depressione) e gli altri disturbi, ancora oggi rintracciabile nelle edizioni del DSM della American Psychiatric Association e dell’ICD dell’Organizzazione Mondiale della Sanità nel Novecento.

Nel tardo Ottocento emerge la psichiatria come specializzazione medica, e con essa una varietà di classificazioni psichiatriche più o meno autorevoli. Tra queste, quella sviluppata da Emil Kraepelin nelle diverse edizioni del suo Compendio di psichiatria spicca come la più sistematica, esaustiva ed influente della sua epoca, nonché come quella più rigorosamente fondata sull’osservazione clinica. Anche per questo è la fonte più importante delle successive classificazioni novecentesche. L’influenza di Kraepelin si è sviluppata dopo un secolo di grandi rivoluzioni nella speculazione intorno alla malattia mentale. Si è abbondantemente sottolineato - sulla scia di Foucault - il processo di medicalizzazione del disturbo psichico e il passaggio da un’idea di “follia” ad una condizione che la medicina si assume il compito di sopprimere e controllare. Durante la prima metà dell’Ottocento, la nascita del manicomio in Europa e svariati atti legislativi del parlamento britannico testimoniano l’avvento del monopolio della medicina sulla follia. Questo monopolio non si fonda sul successo delle terapie psichiatriche, quanto piuttosto sul potere emergente dell’istituzione medica, alleato ad una crescente fiducia nel materialismo e nella psicologia anatomo-fisiologica che poneva in parallelo disturbi fisici e psichici. Se da una parte la terapia morale di Pinel non veniva ancora del tutto abbandonata, tuttavia solo i medici conoscevano il cervello, e perciò diventavano i legittimi titolari della cura dei malati mentali.

Questa tendenza è chiaramente rappresentata dalle illustrazioni dei testi di psichiatria. La stessa idea di creare tavole illustrative è un’innovazione ottocentesca. Ma le convenzioni cambiano: dalle attente incisioni del manuale di Esquirol alle fotografie del nuovo strumentario diagnostico, lo sforzo del ritrattista si indirizza ora verso la resa distaccata e scientifica del paziente visto come caso clinico. Mentre la psichiatria si afferma come specializzazione medica, con le sue pratiche e il suo campo specifico, la scrittura sul disturbo psichico diventa un genere ben definito. La distinzione - che prima era sfumata e irrilevante - tra umore malinconico, stati d’animo e disposizioni comuni, da una parte, e la melancholia come disturbo, dall’altra, è sottolineata e va a circoscrivere l’ambito tematico della nuova letteratura medica.

Contemporaneamente, anche la relazione tra melancholia e depressione sembra subire un significativo cambiamento. Il termine "melancholia" fin lì indicava una gamma di patologie, alcune più vicine a quelle oggi definiti come disturbi dell’umore, altre ai cosiddetti deliri (una delle accezioni settecentesche, si è detto, indica il “delirio limitato ad un solo oggetto” o la “follia parziale”, in linea con la tendenza dell’epoca a inquadrare tutte le malattie mentali come disturbi dell’area cognitiva). Il meno comprensivo e più recente termine depressione si riferiva in origine solo a una qualità o sintomo della melanconia. Così, il medico inglese Charles Mercier nel 1890 annota che la depressione dell’umore è il sintomo caratterizzante della melancholia, e due anni dopo, nel Dictionary of Psychological Medicine, parla di un disturbo in cui la depressione affettiva non è connotata da delirio.

Quando invece il termine depressione entra nel testo di Kraepelin, esso non indica più un semplice sintomo della melanconia ma piuttosto un albero di sintomi o una sindrome. Con la revisione della sua nosografia nel 1886, conseguente al tentativo di distinguere patologie accompagnate da una prognosi più ottimistica o meno ottimistica, Kraepelin usa il termine psicosi periodiche per raccogliere in una categoria una serie di disturbi affettivi comprendenti la mania, la melancholia e la follia circolare. Un anno più tardi, nel suo manuale, questo raggruppamento diventa il gruppo delle psicosi maniaco-depressive, che include gli stati depressivi. Giunto all’ottava edizione del Compendio, fra il 1909 e il 1913, Kraepelin distingue cinque forme di melancholia tra gli stati depressivi, organizzate principalmente in base alla gravità. La depressione ha così preso posto accanto alla “melancholia” - e più tardi la scalzerà – per descrivere una malattia vera e propria, o un albero di sintomi.

L’epoca di Kraepelin vede crescere la fiducia nella possibilità di trattare la malattia mentale come riflesso parallelo di specifiche e localizzate lesioni cerebrali, da far corrispondere a determinati raggruppamenti di sintomi. In Germania, questa impostazione è nota come somatismo. La scoperta della relazione tra la sifilide e i conseguenti sintomi di demenza ha fornito il modello generale e ha rafforzato l’assunto che, alla stregua delle malattie fisiche, anche quelle psichiche fossero classificabili con le modalità delle scienze naturali, come alberi di sintomi discreti e stabili, affidabili e facili da riconoscere. L’analisi delle malattie viste come sindromi di sintomi discreti non ha origine nell’Ottocento, anche se l’avvento della psichiatria coincide con la massima enfasi del modello: nel Seicento, Thomas Sydenham paragonava già le malattie alle classi della botanica.
Questa svolta riflette l’importanza dell’influsso di Rudolf Virchow e Wilhelm Griesinger. Il primo sostiene la possibilità di localizzare ogni patologia ed enuncia i principi della patologia cellulare nel 1858, il secondo (1845) pubblica un celebre trattato in cui difende la terapia somatica e scredita la terapia morale, riconoscendo nella malattia nervosa l’origine di qualunque disturbo psicologico.
La psichiatria somatica tedesca, benché controversa, ha avuto grande impatto in America sul finire dell’Ottocento, consolidando la fiducia nel fatto che tutti gli elementi del disturbo, dall’eziologia al decorso fino all’esito, fossero in qualche modo riconducibili a ciò che il medico poteva vedere.

Due correnti di pensiero hanno acquistato nuova importanza alla luce degli sviluppi della psichiatria: da una parte la psicologia delle facoltà psichiche, e più tardi la frenologia, che hanno reificato le funzioni collegandole a precise regioni del cervello; dall’altra una tradizione settecentesca - diversa ma connessa alla prima - che ha distinto e polarizzato i domini della passione e della ragione mediante una rete di associazioni riferite distintamente a tali domini, contribuendo ad accrescere il divario tra funzioni cognitive e affettive.
La prima influenza è ben rappresentata dalla classificazione delle malattie mentali di Rufus Wyman, psichiatra americano della prima metà dell’Ottocento, che distingue le malattie dell’intelletto e quelle delle passioni. Anche Griesinger propone 15 anni dopo due grandi raggruppamenti di anomalie mentali, uno caratterizzato dalla produzione e dalla persistenza di stati emotivi morbosi, l’altro dai disordini dell’intelletto e della volontà. Il riconoscimento dei disturbi dell’affettività come malattie a se stanti ha gettato le fondamenta per la successiva classificazione di Kraepelin.
Tuttavia, non tutti i clinici persuasi dal modello della psicologia delle funzioni si spingono fino a cercare la corrispondenza esatta tra funzione e regione cerebrale: lo psichiatra inglese Henry Maudsley avverte che le diverse forme di malattia mentale non sono entità patologiche diverse e indipendenti, in quanto secondo lui la malattia mentale è sempre preceduta da un disturbo della vita affettiva.
La separazione definitiva tra i disturbi affettivi (maniaco-depressivi) e quelli della sfera cognitiva (la demenza precoce di Kraepelin) ha imposto una definizione più ristretta di melancholia, escludendo per esempio le idee fisse e i deliri, e accentuando invece la sintomatologia della sfera affettiva.
Kraepelin ha tentato di modellare la psichiatria sulle scienze naturali: la sua classificazione aveva lo scopo di scoprire e denominare tutte le forme naturali di psicopatologia. Egli era celebre per la scrupolosità nel fondare le sue generalizzazioni sui casi a lungo termine che aveva studiato. Così, intento a scoprire quelli che vedeva come i generi naturali dei disturbi, e a cogliere i sintomi che avrebbero dovuto puntualmente manifestarsi come per le malattie organiche, Kraepelin non riuscì a rendersi conto che la distinzione tra le categorie affettive e cognitive emergente dal suo sistema era piuttosto il frutto di una sua assunzione che dell’osservazione clinica. Maudsley, in forza della sua convinzione che ogni malattia mentale implicasse un disturbo affettivo, non incorse nell’errore di Kraepelin, e anzi fu capace di prevederlo e di avanzare obiezioni esplicite a riguardo, avvertendo che c’è nella mente umana la propensione non solo a stabilire nelle proprie conoscenze delle suddivisioni assenti in natura, ma anche a trasformare le generalizzazioni fatte a partire dall’osservazione in entità reali positive, permettendo a tali costrutti artificiali di predeterminare le future acquisizioni di conoscenza.

La seconda influenza citata da Radden si riferisce ad una cultura che pone una serie di associazioni tra cognizione, ragione e pensiero, da una parte, e affetto, passione e sensazione, dall’altra. Con l’edificazione del metodo scientifico moderno - a partire dal 16° secolo - si è posta enfasi nel distinguere da un lato la soggettività umana e valutativa, dall’altro gli oggetti osservabili e misurabili della ricerca scientifica. La ragione assurge ad unico mezzo per la scoperta di una realtà oggettiva e avalutativa, in un processo che si oppone alle sensazioni e alle passioni, ritenute forze al di là del controllo del soggetto e della comprensione razionale.
In epoca più tarda, a questa fondamentale distinzione si aggiungono altre associazioni in ciascuno dei due domini: la ragione viene a rappresentare la mascolinità, la passione la femminilità – così anche in Hegel, ad esempio, e la Ragione è inoltre associata al dominio pubblico, mentre la passione è relegata all’ambito domestico e privato.
L’antropologa Catherine Lutz (1986) ha documentato la portata di queste associazioni nell’epoca dell’Illuminismo: il femminino, il privato, il domestico, si associano anche allo straniamento, all’irrazionale, all’atto involontario e incontrollato, al pericolo e alla vulnerabilità, alla corporeità, alla soggettività e al giudizio di valore soggettivo. Tali associazioni si ritrovano anche nella letteratura medica del periodo. Thomas Laycock, professore di medicina presso l’università di Edimburgo a metà dell’Ottocento,  paragona le donne e i bambini sulla base della loro “affectability” (sensibilità, suscettibilità) nel suo libro sulle malattie nervose delle donne; e Brundenell Carter, studioso dell’isteria, parla di una conformazione naturale che causa la propensione femminile per il sentire nelle circostanze in cui invece gli uomini tendono a pensare, basando su questa distinzione la teoria dell’isteria come malattia specificamente femminile e dell’ipocondria come malattia maschile.

A partire da tali associazioni si fonda la basilare distinzione nella nosologia psichiatrica occidentale contemporanea che separa i disturbi affettivi dagli altri.
Questo modello non si è affermato senza conflitti: un principio di classificazione alternativo si basava (come inizialmente in Griesinger) sull’ipotesi di una sola e unitaria categoria di psicosi, inaugurata da una fase melanconica. Inoltre, vi sono stati altri tentativi concorrenti ma meno influenti di proporre suddivisioni alternative dei disturbi, pur basate sulla psicologia delle facoltà psichiche, che distinguevano per esempio disturbi della memoria, della volontà, della personalità, dell’immaginazione, delle facoltà morali.
L’influenza della psicologia delle facoltà si ritrova anche nelle teorie psicologiche sulle emozioni del primo Novecento: la teoria periferica di James-Lange, ad esempio, tenta di ricondurre le emozioni a stati  involontari, non cognitivi, caratterizzati da sensazioni corporee. Questa teoria è stata sfidata da psicologi cognitivisti come Aaron Beck e dalle teorie cognitive delle emozioni a lungo tramandate in ambito filosofico, per le quali le emozioni includono elementi sia cognitivi che affettivi.
Quella di Beck è una teoria causale: le emozioni associate alla depressione sarebbero risposte a stati caratterizzati da distorsione cognitiva. La terapia colpisce e modifica queste distorsioni cognitive per alleviare le conseguenti risposte affettive negative.
Invece, le teorie cognitive di stampo filosofico elevano gli stati cognitivi al rango di veri e propri elementi costitutivi dell’emozione, la cui presenza essenziale serve a discriminare il tenore dell’emozione in questione: ad esempio, la risposta emotiva è identificabile come “rimpianto” e non come “tristezza” in virtù della specificazione dell’oggetto come evento trascorso verso il quale il soggetto ha qualche grado di responsabilità.

Il pensiero psicoanalitico ha sempre evitato la separazione netta tra dominio cognitivo e affettivo, come si vede nella raffinata elaborazione freudiana della melanconia. La stringente associazione della depressione alla perdita e all’auto-svalutazione che emerge in Lutto e Melanconia (1917) introduce una più definita credenza o cognizione implicata negli stati d’animo in questione.  Le precedenti descrizioni di una semplice, quasi sentimentale inclinazione soggettiva tendente a una paura indefinita e alla disperazione fanno a pugni con lo stato d’animo del melanconico freudiano. Con l’innovativa ridefinizione dell’attitudine cognitiva riferita al sé nella melanconia, Freud introduce una svolta discostandosi dalle correnti del pensiero psichiatrico e dal predominio della terapia somatica stabilitosi nei vent’anni precedenti la pubblicazione del suo studio.

https://en.wikipedia.org/wiki/Faculty_psychology
https://it.wikipedia.org/wiki/Giovanni_Cassiano
https://it.wikipedia.org/wiki/Emil_Kraepelin
https://en.wikipedia.org/wiki/Charles_Mercier
https://it.wikipedia.org/wiki/Thomas_Sydenham
https://it.wikipedia.org/wiki/Rudolf_Virchow
https://it.wikipedia.org/wiki/Wilhelm_Griesinger
https://en.wikipedia.org/wiki/Rufus_Wyman
https://en.wikipedia.org/wiki/Henry_Maudsley
https://en.wikipedia.org/wiki/Catherine_Lutz
https://en.wikipedia.org/wiki/Thomas_Laycock_(physiologist)
https://en.wikipedia.org/wiki/Robert_Brudenell_Carter
https://it.wikipedia.org/wiki/Aaron_Beck
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Lettura condivisa: The Nature of Melancholy Empty Introduzione: Seconda parte (2)

Messaggio  canterel II Gio Mar 05, 2020 11:58 am

INTRODUZIONE - Seconda parte: La melanconia attraverso il nostro sguardo contemporaneo

Melanconia come condizione essenzialmente soggettiva

Diversi aspetti soggettivi della melanconia e della melancholia richiedono attenzione. Uno di questi è la distinzione tra gli umori melanconici come occorrenze momentanee e la melanconia come stato abituale. Burton (1621) suggerisce questa distinzione quando parla di una melanconia transitoria che va e viene con le più piccole occasioni di dispiacere, paura, sofferenza, perdita, angoscia, malattia, passione o perturbazione della mente. Scrupolo di Burton è quello di separare quelle che considera manifestazioni quotidiane normali di umore melanconico dalle patologie più radicate e più gravi. Perciò distingue una disposizione melanconica e un’abitudine melanconica: la prima, alla quale nessun essere umano sfugge, si ha quando l’uomo è stanco, triste, inacidito, impedito, indisposto, solitario, alterato o dispiaciuto in qualche modo. La seconda invece è una malattia cronica, costante, un umore stabile, non fluttuante. La demarcazione mette enfasi sulla persistenza e la frequenza degli stati d’animo melanconici. Forse genera confusione definire “disposizione” ciò che si oppone all’abitudine, perché oggi i due termini sono usati quasi come sinonimi. Inoltre, l’abitudine potrebbe essere a ben vedere solo un’occorrenza più frequente della tristezza e stanchezza che Burton indica come sentimenti comuni a tutti gli uomini.

C’è un’altra distinzione a cui Burton non fa cenno: è quella, che oggi sarebbe marcata, tra “soggettivo” e “comportamentale”. Soggettivo definisce ciò che noi soli cogliamo direttamente per l’accesso privilegiato ai nostri stessi stati mentali - ciò che è oggetto di introspezione. Comportamento invece è ciò che può essere conosciuto dal punto di vista di un osservatore distaccato, senza la cooperazione e la verbalizzazione del soggetto. Anche questa demarcazione, come quella tra ragione e passione, è frutto di una particolare epoca, in questo caso l’Ottocento, durante la quale essa è stata enfatizzata a beneficio della fondazione della psicologia scientifica. Mentre la nuova disciplina empirica si emancipava dalla filosofia, gli psicologi sperimentali e comportamentisti si scontravano con gli introspezionisti. Gli stessi contrastanti assetti metodologici si sarebbero irrigiditi ulteriormente nella divisione novecentesca tra approccio sperimentale e approccio fenomenologico.

La nozione di melanconia come sentimento del soggetto, tema privilegiato del lavoro letterario, coglie sia il senso di uno stato transitorio che quello di uno stato essenzialmente soggettivo. Questa è la nozione che ha dato corso all’uso del termine melanconia come attributo, riportato nel Dizionario di Samuel Johnson. La melanconia come carattere fosco, desolato, coglie aspetti relativi non solo alla descrizione di persone ma anche di paesaggi. Klibansky, Panofsky e Saxl identificano un senso poetico di melanconia come stato soggettivo passeggero nella lirica e nella prosa dopo il Medioevo. Questa melanconia poetica e transitoria si oppone sia alla melanconia-malattia, sia alla melanconia-temperamento, eclissandoli parzialmente. Gli autori sostengono che nella letteratura europea moderna questa idea di melanconia ha perso la connotazione di temperamento e ha acquisito invece quella di tono, sfumatura, atmosfera trasferibile ad oggetti inanimati.
L’importanza della soggettività melanconica sembra riprendere forza con la nozione romantica di melanconia emersa alla fine del Settecento. Nella letteratura romantica, il melanconico è come Werther, tutto sentimento e sensibilità. A volte si impone un’enfasi esagerata sui sentimenti di cupezza, solitudine, struggimento, lutto, disperazione, nostalgia e tristezza elegiaca. I pittori dell’epoca, come Caspar David Friedrich, sintetizzano questa gamma emotiva in paesaggi oscuri e suggestivi.
Del modo in cui la melanconia poetica moderna si è trasformata nella sensibilità romantica, Klibansky, Panofsky e Saxl hanno osservato che la tensione dei conflitti religiosi del 16° secolo rendeva la melanconia “una realtà spietata dinnanzi alla quale gli uomini tremavano (…) e che cercavano invano di bandire con mille antidoti e disquisizioni consolatorie”. Solo successivamente fu possibile per l’immaginazione trasfigurare la melanconia in una condizione ideale, intrinsecamente apprezzabile pur se dolorosa, mediante la quale la tensione continuamente rinnovata tra depressione ed esaltazione, infelicità ed unicità, orrore della morte e accresciuta consapevolezza della vita, poteva infondere nuova linfa al teatro, alla poesia e all’arte. E fu solo dopo gli eccessi del revival gotico nella poesia cimiteriale – con le rovine, i camposanti, i chiostri, i tassi e i fantasmi – e dopo che la scrittura melanconica si era fatta stucchevole e convenzionale, che divenne possibile l’affermazione romantica, intensamente personale e soggettiva del “profondo dolore individuale”. Solo nell’acutezza e vitalità della scrittura del primo Ottocento - come in Keats - la tradizione romantica della melanconia reggerebbe il confronto con quella elisabettiana.

Accanto al fiorire della melanconia romantica, nasce la psichiatria: ma nella definitiva classificazione psichiatrica della melanconia con Kraepelin, alla fine dell’Ottocento, l’enfasi sulla soggettività è svanita, e gli aspetti corporei e comportamentali sono privilegiati.
La distinzione tra soggettività e comportamento si riflette nella pratica diagnostica con il contrasto tra l’enfasi sul sintomo e l’enfasi sul segno. Il sintomo è un malessere riferito dal paziente, una descrizione di stati interni; invece il segno è una caratteristica osservabile del comportamento o della condizione corporea.
L’analisi della melanconia di Maudsley (1867) è psicologica e basata sui sintomi, a differenza di quella che 16 anni dopo propone Kraepelin. La nosologia psichiatrica aveva le sue ragioni per enfatizzare i segni osservabili, più in linea con le concezioni prevalenti di rigore scientifico.
Con la terza edizione del DSM (1980) la depressione appare connotata almeno altrettanto da manifestazioni comportamentali (movimenti agitati o rallentati, perdita di appetito, fatigue, insonnia, oggi anche note come segni vegetativi) che dall’umore e dai sentimenti implicati. L’enfasi sui comportamenti ha portato a specificazioni del costrutto di depressione (depressione agitata, depressione ritardata…). La quarta edizione del DSM ha proseguito in questa direzione, nonostante alcune critiche, e uno studio recente mostra che il disturbo psicomotorio è sia l’indicatore più discriminante che il più suggerito in tutti gli approcci di valutazione della melancholia (Parker, G. e Dusan Hadzi-Pavlovic, 1996. Melancholia: A Disorder of Movement and Mood. Cambridge: Cambridge University Press).

Il rigore scientifico percepito e uno sguardo clinico distaccato, oggettivo, divennero anche l’obiettivo della fotografia psichiatrica. I fautori di questo nuovo campo dell’illustrazione notavano che la fotografia superava le incisioni grazie alla sua insuperabile fedeltà alla fisionomia. L’enfasi, nell’Ottocento, era sulle espressioni facciali, tanto nella pittura (ad esempio, Géricault) quanto nell’incisione o nella fotografia. Si supponeva che il volto fosse la chiave per comprendere gli stati psicologici del paziente e quindi la malattia. In questo sistema di assunzioni il sintomo percepito prendeva un posto centrale. La fotografia psichiatrica del Novecento, al contrario, spesso nasconde il volto. Un simile cambiamento di convenzioni si può spiegare con il riconoscimento recente del diritto alla riservatezza del paziente. Ma sembra anche riflettere, e forse rafforzare, la preferenza per i segni corporei e comportamentali.

Un tema trattato nella letteratura femminista sulla melanconia e la depressione sottolinea il contrasto tra la loquacità del maschio melanconico e la muta sofferenza delle donne (in Schiesari, Juliana, 1992. The Gendering of Melancholia: Feminism, Psychoanalysis, and the Symbolics of Loss in Renaissance Literature. Ithaca, N. Y: Cornell University Press) . L’accento sulla perdita della parola della donna si ritrova nelle opere di Julia Kristeva, Judith Butler, Luce Irigaray e nella corrente lacaniana. L’alienazione femminile del linguaggio è spiegata con l’estraniazione dal sé, collegato alla figura dell’autore e alla narrazione introspettiva, che ha un connotato profondamente maschile.
Radden vuole sottolineare che la tendenza crescente a descrivere un disturbo nei termini delle sue manifestazioni comportamentali serve anche a silenziare coloro che ne soffrono.

https://it.wikipedia.org/wiki/Psicologia_sperimentale
https://it.wikipedia.org/wiki/Comportamentismo
https://it.wikipedia.org/wiki/Strutturalismo_(psicologia)
https://it.wikipedia.org/wiki/I_dolori_del_giovane_Werther
https://br.wikipedia.org/wiki/Caspar_David_Friedrich#/media/Restr:Caspar_David_Friedrich_-_K%C3%BCste_bei_Mondschein.jpg
https://it.wikipedia.org/wiki/Alienata_con_monomania_del_gioco#/media/File:GericaultMonomaniacOfGame.jpg
https://books.google.it/books/about/The_Gendering_of_Melancholia.html?id=2200XYw2ESUC&redir_esc=y
https://it.wikipedia.org/wiki/Julia_Kristeva
https://it.wikipedia.org/wiki/Judith_Butler
https://it.wikipedia.org/wiki/Luce_Irigaray
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Lettura condivisa: The Nature of Melancholy Empty Introduzione: Seconda parte (3)

Messaggio  canterel II Gio Mar 05, 2020 1:53 pm

INTRODUZIONE - Seconda parte: La melanconia attraverso il nostro sguardo contemporaneo

Considerazioni ontologiche

Che cos’è una malattia mentale come la depressione? La letteratura psichiatrica recente spesso dà per implicito che i sintomi depressivi siano nient’altro che gli effetti percepiti di una condizione soggiacente di disfunzione cerebrale che causerebbe, e quindi spiegherebbe, i sintomi riferiti e i segni immediatamente osservabili.
Seguendo il dettato di Kraepelin, l’analisi eziologica comprende tutto, dalla disfunzione cerebrale fino all’insieme dei segni e dei sintomi; mentre un’analisi “descrittiva” (non eziologica) si limita a riportare i sintomi, e forse i segni. Se diamo priorità alla soggettività della persona depressa, i sintomi diventano necessari e sufficienti per una diagnosi: perciò tanta letteratura odierna nell’ambito dei cultural studies preferisce l’analisi descrittiva.
(Radden si affretta però a precisare che le analisi descrittive non negano la relazione tra sintomi e funzionamento cerebrale. Piuttosto, implicano che tale relazione non sia di natura differente dalla relazione fra cervello e comportamento in tutte le altre condizioni psicologiche. La relazione tra comportamento e cervello è naturalmente oggetto di dibattito in filosofia).

Importanti problemi nell’epidemiologia della depressione si annidano in quella che a volte è definita come l’ontologia della malattia mentale, la domanda fondamentale riguardo a cosa sia un disturbo psichico.
Nel campo della psichiatria cross-culturale, per esempio, a partire dal lavoro di Arthur Kleinman si sostiene che la depressione e i disturbi ad essa correlati sono presenti in Cina, ma mediati da espressioni culturali differenti: tipicamente, nella cultura cinese i disturbi sarebbero somatizzati e ridotti a sintomi corporei come cefalea, debolezza, vertigini. Se ci atterremo all’analisi descrittiva della depressione, saremo costretti a trovare tra gli stati d’animo occidentali e i mal di testa orientali sufficienti somiglianze per sentirci autorizzati a sovrapporre i due diversi gruppi di sintomi. Sul piano dell’analisi eziologica, invece, il postulato dello stato cerebrale antecedente porta a considerare la gamma di sintomi riportati in Cina come una conferma del carattere universale della depressione, perché la malattia cerebrale ammette una varietà di sintomi condizionata dalla diversità culturale.

La cosiddetta “depressione mascherata” fornisce un secondo esempio della posta in gioco nella scelta tra analisi descrittive ed eziologiche. Gli studi sulla depressione in rapporto al genere sono talvolta messi in questione dall’affermazione che la depressione maschile trova un’espressione mascherata nell’abuso di sostanze, nella violenza e in altri comportamenti antisociali ( così in Real, Terrence, 1997. I Don't Want to Talk about It. Cambridge, Mass.: Harvard University Press). L’ipotesi che a causa di una diversa socializzazione, la stessa condizione del cervello possa produrre una tipologia di sintomi nelle donne ed una diversa negli uomini, per esempio, implica che l’acting out sia un’espressione diversa ma parallela alla tristezza e alla disperazione femminile (ma potrebbe anche non esserlo: probabilmente gli uomini sperimentano lo stesso disagio delle donne, e la loro diversa socializzazione li rende soltanto inclini a manifestarlo in modo differente).
Forse, la depressione manterrà un forte legame con i disturbi femminili solo finché resteremo nel quadro di una generale valorizzazione dell’esperienza soggettiva della malattia. Su un piano eziologico e non descrittivo non si daranno difficoltà ad ammettere che la depressione maschile è paragonabile a quella femminile per diffusione e severità, a prescindere dalle differenti esperienze dei soggetti colpiti.

Queste considerazioni ontologiche entrano nella nostra discussione anche in un senso più ampio. E’ possibile sostenere che le vecchie trattazioni della melanconia e gli odierni quadri clinici della depressione descrivono la stessa cosa? Parte della risposta dipende dal grado di somiglianza tra le descrizioni più antiche e quelle presenti. Ci sono somiglianze tra gli stati d’animo descritti attraverso i secoli, e perfino tra le vecchie teorie umorali e le spiegazioni contemporanee basate sullo squilibrio biochimico. D’altra parte, ci sono anche notevoli differenze. L’aderenza all’analisi descrittiva potrebbe scoraggiare il tentativo di identificare l’antica melanconia e la depressione clinica, alla luce delle differenze. Le stesse differenze, però, potrebbero facilmente essere minimizzate o aggirate da spiegazioni eziologiche, restituendo la possibilità di affermare che la melanconia fa tutt’uno con la depressione.

https://it.wikipedia.org/wiki/Studi_culturali
https://en.wikipedia.org/wiki/Arthur_Kleinman
https://it.wikipedia.org/wiki/Acting_out

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Messaggio  canterel II Sab Mar 07, 2020 1:55 pm

INTRODUZIONE - Seconda parte: La melanconia attraverso il nostro sguardo contemporaneo

Stati melanconici come stati d'animo

Se da una parte sono ben noti come sintomi centrali e tratti soggettivi caratteristici della melanconia, la tristezza e la paura senza causa richiedono un’analisi. Il termine è ambiguo: si vuol dire che non c’è alcuna causa, o che non c’è una causa sufficiente? Si è di solito letto in Burton, come nei suoi epigoni, un atteggiamento più orientato alla seconda ipotesi (la causa non è sufficiente). Ma si potrebbe dare risalto alla prima ipotesi (nessuna causa) per sottolineare la possibilità di uno psichismo immerso in un umore nebuloso e persistente, piuttosto che uno stato affettivo rispondente a oggetti definiti. La distinzione filosofica contemporanea tra umori ed emozioni, cara ai filosofi analitici, entra qui nel discorso.

Se paura e tristezza non hanno causa sufficiente, sono tuttavia rivolti ad un oggetto che secondo il paziente esiste ed è motivo sufficiente. Sono cioè accompagnati da oggetti “intenzionali” che ad un occhio esterno non sembrano giustificare il grado della risposta affettiva suscitata nel paziente (terrore per un rischio minimo, disperazione per un evento triviale, ecc). Al contrario, se tristezza e paura sono del tutto prive di cause riconosciute e ammesse come tali dal soggetto, allora si tratta di umori, per natura sfuggenti e tendenti a trascolorare in altri stati come il tedio, la nostalgia, le sensazioni corporee. Nessun particolare oggetto può essere descritto al di fuori dell’umore stesso, che modifica e pervade l’intero campo percettivo.

La distinzione tra umori ed emozioni deriva dalla teoria dell’intenzionalità di Brentano, emersa alla fine dell’Ottocento, tuttavia si può applicare anche retrospettivamente: in epoca rinascimentale e nella prima età moderna ritroviamo sia testi che trattano la melanconia come esperienza di umori nebulosi e pervasivi, sia testi che riferiscono di paura o tristezza non sufficientemente motivate. Esemplari in tal senso sono i resoconti di Richard Napier (1559-1634), medico e sacerdote che ha visitato molti pazienti con problemi mentali nei primi trent’anni del Seicento. I melanconici di Napier a volte sembrano soffrire di deliri e allucinazioni, anche se il concetto di possessione demoniaca può aver avuto un’influenza sulla capacità di riconoscere questo tipo di sintomi gravi. Ma per la maggior parte, i pazienti soffrono di melanconia, demoralizzazione (“mopishness”, attributo comune nel ‘600 che indica perdita di interessi connotata da tedio e amarezza), ansia, paura, tristezza, cupezza, disperazione, pesantezza, inerzia e disinteresse (nelle parole di Napier, il suo paziente è “solitario” e “non fa nulla”). Molte di queste descrizioni suggeriscono umori pervasivi immotivati piuttosto che emozioni orientate da pensieri e credenze.

Inoltre, i sentimenti di ansia e paura formano di solito un raggruppamento separato rispetto a quelli di tristezza e scoramento. Come le descrizioni degli antichi greci e del Rinascimento, anche i resoconti della prima età moderna come quelli di Napier danno uguale importanza ai due insiemi di sintomi. Con la progressiva medicalizzazione dell’Ottocento, invece, le descrizioni della melancholia sembrano privilegiare l’insieme dei sintomi relativi alla tristezza immotivata, rispetto a quello della paura immotivata: probabilmente ciò è da ascriversi alla comparsa di nuove categorie diagnostiche quali la nevrastenia, l’isteria, e più tardi i disturbi ossessivi e i disturbi d’ansia, che hanno stabilito un’associazione preferenziale con la paura e l’ansia senza fondamento.

https://it.wikipedia.org/wiki/Franz_Brentano
https://en.wikipedia.org/wiki/Richard_Napier
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Messaggio  canterel II Dom Mar 08, 2020 1:55 pm

INTRODUZIONE: Seconda parte - La melanconia attraverso il nostro sguardo contemporaneo

Il genere: la soggettività depressiva come soggettività femminile

A rinforzare la separazione tra i disturbi affettivi e le altre malattie si è stabilita una serie di associazioni, compresa quella per cui tali disturbi sarebbero tipicamente femminili. Questa tradizione ci conduce fino all’intrigante questione novecentesca della connotazione “di genere” della depressione come categoria clinica e subclinica.
Eppure, in un certo ordine di discorsi, almeno a partire dal medioevo e ancora nella scrittura del Settecento, le donne erano considerate meno suscettibili alla melanconia degli uomini. Areteo di Cappadocia, contemporaneo di Galeno nella Roma del 2° secolo, credeva che la melanconia colpisse più spesso gli uomini, e così anche l’arabo Avicenna. Come ancora Johann Weyer, nel 16° secolo (pur finendo per illustrare più spesso casi di donne). Benjamin Rush (1812) sostiene che la follia parziale o tristimania colpisce più spesso gli uomini. A volte si specifica una qualità discriminante: quando le donne sono colpite dalla melanconia, allora ne soffrono le forme più gravi, a causa della naturale complessione femminile.

L’abbinamento tra uomini e stati melanconici si ritrova anche nella letteratura non medica del Settecento, anche se talvolta suscita obiezioni. Nella poesia intitolata On a Certain Lady at Court (1735), Alexander Pope immagina che “una donna ragionevole” sia la cosa più insolita a trovarsi. Questa donna rara sarebbe

Not warped by passion, awed by rumour,
Not grave through pride, or gay through folly,
An equal mixture of good humour,
And sensible soft melancholy.


In altri termini, secondo Pope la “sensibile, delicata malinconia” è più comune negli uomini.
Sessant’anni dopo Mary Wollstonecraft, acuta osservatrice dei ruoli sociali, riconosce lo stesso abbinamento tra uomini e malinconia. Tuttavia nella sua Rivendicazione dei diritti della donna (1792) respinge l’affermazione di un anonimo contemporaneo secondo il quale le passioni durevoli, stabili e apprezzabili sarebbero tratti mascolini, laddove le donne sarebbero soggette a passioni capricciose, mutevoli e triviali.

In apparente contraddizione con l’attribuzione maschile che abbiamo fin qui rintracciato, le rappresentazioni iconografiche fra la prima età moderna e il Settecento sembrano prediligere la personificazione femminile della melanconia nella figura della “Dame Tristesse”, a partire dalla celebre serie di incisioni di Dürer. Tuttavia, gli interpreti di questa iconografia sostengono che al massimo, tale prevalenza stesse ad indicare il lato femminile dell’uomo o una metafora del suo scoramento, oppure anche la causa e la fonte della melanconia maschile: queste conclusioni si ritrovano nei saggi già citati di Klibansky, Panofsky e Saxl (1964) e di Schiesari (1992), nonché in Walter Benjamin (ne Il dramma barocco tedesco).

Soprattutto, come abbiamo già notato, con la riscoperta del legame tra melanconia e genio mediata dall’umanesimo italiano si è affermata la rappresentazione dell’uomo di genio colpito dalla melanconia, poiché in quella temperie la categoria del genio non aveva più pertinenza con la concezione della donna di quanta ne avesse la melanconia.

Tentare di determinare la prevalenza della melancholia patologica negli uomini e nelle donne prima dell’Ottocento soltanto sulla base di questa letteratura e di quest’iconografia sarebbe un’operazione imprecisa e scorretta. È però ampiamente accettato che verso la fine dell’Ottocento, con l’emergere di una nozione di melancholia in qualche modo rassomigliante alla depressione clinica odierna, la soggettività melanconica diventa - o appare in modo crescente - femminile. Il legame tra femminilità, donne e depressione ha due aspetti, separabili in linea di principio ma interconnessi nella pratica: il primo è di tipo associativo, il secondo è strettamente epidemiologico.

La dimensione affettiva fatta di emozioni, umori e sensazioni è stata accusata di essere sregolata, capricciosa, irrazionale, ed è stata associata alla corporeità, alla soggettività e al femminile. Queste analogie, come si è visto, hanno cominciato a consolidarsi nel Settecento. Indubbiamente il loro effetto complessivo è stato soprattutto di legare il femminile e la follia in generale. Ma alcuni indizi ci incoraggiano a considerare specialmente melancholia e depressione come malesseri che portano una connotazione culturale di genere.
Per esempio, nel 1845 Esquirol nota che a causa della loro delicatezza intrinseca, della mobilità delle loro sensazioni e dei loro desideri, della refrattarietà a fronteggiare qualunque problema, le donne sembrano a prima vista meno vulnerabili alla melanconia. E però, si chiede Esquirol, la vita sedentaria e l’estrema suscettibilità delle donne non sono le cause scatenanti della malattia? Non sono esse dominate da influenze a cui gli uomini sono estranei, come le mestruazioni, la gravidanza, il parto e l’allattamento? Le passioni amorose e quelle suscitate dalla religione - che sono particolarmente accese nel carattere femminile - renderebbero le ragazze, le vedove e le donne in menopausa proclivi a una melanconia erotica o religiosa. La discussione di Esquirol sulla prevalenza della lipemania è più esplicita, su questo punto, delle tarde classificazioni di fine Ottocento.
Pur presentando - in Lutto e melanconia - anche casi di donne, Freud invece non stabilisce un chiaro legame con il genere femminile, e si potrebbe anzi sostenere sulla scia di Schiesari (1992) che il suo saggio propenda per una caratterizzazione maschile della melanconia, in linea con la tradizione del Rinascimento italiano.
Kraepelin, al contrario, pur adottando la postura dello scienziato empirico, in alcuni passaggi del Compendio associa esplicitamente femminilità ed emotività, collegando tale associazione alla prevalenza delle psicosi maniaco-depressive.
La storica Elizabeth Lunbeck, commentando i documenti del Boston Psychopathic Hospital risalenti all’epoca di Kraepelin, illustra l’associazione di genere in modo diverso: nota nelle descrizione di pazienti maniaco-depressivi il riferimento a tratti effemminati (Lunbeck, Elizabeth. 1994. The Psychiatric Persuasion: Knowledge, Gender, and Power in Modern America. Princeton, N.J.: Princeton University Press). Lo stereotipo culturale su cui questi giudizi si basavano è pervasivo. Lo vediamo nella repulsione di Samuel Smiles nei confronti degli eccessi “unmanly” (effemminati) evidenti nella condizione psicopatologica che egli definisce “wertherismo” o “Green sickness” (Malattia verde, denominazione allora comune per indicare l’anemia ipocromica o clorosi). La reazione alle concezione romantiche fu influente negli Stati Uniti e non lasciò spazio per gli uomini virili tra i soggetti passivi, inermi e infelici affetti dagli stati melanconici.

All’epoca di Kraepelin, l’identificazione epidemiologica tra donne e disturbo maniaco-depressivo era quindi stabilita.
Questa identificazione non si confonde con la più generale associazione tra donne e follia che, abbiamo detto, prende piede nella seconda metà dell’Ottocento. Riguardo a questo legame più generico, uno studio sui documenti clinici dell’Inghilterra vittoriana conclude che alla metà dell’Ottocento si sarebbe cominciata a registrare una prevalenza statisticamente significativa di donne tra gli internati (Showalter, Elaine. 1985. The Female Malady. New York: Random House). Anche se questo dato è stato messo in discussione, diversi fattori concorrono almeno a confermare la percezione culturale di un aumento di casi a carico di donne, ed è in questo periodo che nei testi di medicina si attribuisce la suscettibilità per la malattia mentale alle fasi del ciclo biologico riproduttivo femminile. Pareri di medici autorevoli dell’epoca affermano che la follia si può manifestare con il periodo mestruale, il menarca, la menopausa, la gravidanza, il parto, l’allattamento. Alcuni psichiatri, come l’inglese George Fielding Blandford nel 1871, postulano un legame tra utero e cervello. Più familiari per il lettore odierno sono i casi di follia puerperale (antecedente nosografico della depressione post partum), alcuni dei quali potevano avere decorso grave e sfociare nel suicidio o nell’infanticidio. Altri medici, come Maudsley, collegavano direttamente i cicli riproduttivi femminili alla melancholia.

Nonostante l’insistenza di Esquirol sul carattere femminile della lipemania, i dati del tardo Ottocento devono essere maneggiati con cautela. L’associazione con diagnosi precise come quelle per la melancholia o la depressione non è tanto evidente quanto l’associazione generica tra donne e follia. Il legame con i disturbi maniaco-depressivi è rintracciabile nei documenti e riconosciuto dagli storici della psichiatria – come la già citata Lunbeck. Ma la classificazione di Kraepelin non ci consente di tenere traccia del legame di genere specifico con la sola melancholia, poiché appunto la nasconde tra le sottospecie dei disturbi maniaco-depressivi. Un’altra difficoltà deriva dall’associazione tipica tra donne e altre malattie come la nevrastenia e l’isteria, dalla definizione incerta e spesso confuse con la melancholia.

Molti studi recenti, nonché il DSM-III (1980) e il DSM-IV (1994), continuano a riconoscere un legame preferenziale tra donne e depressione, ed alcuni inoltre continuano a spiegare i disturbi maniaco-depressivi come peculiarità degli organi riproduttivi femminili. Queste osservazioni devono essere assunte criticamente. L’estensione del legame di genere con la depressione è stata messa in discussione, così come la stabilità del profilo epidemiologico. Gli studi critici hanno anche sottolineato importanti fattori di distorsione, come la maggiore propensione delle donne ad adottare comportamenti di ricerca di aiuto (anche se alcuni metodi di indagine hanno l’ambizione di controllare questa variabile). Stanti queste riserve, Radden conclude che la maggior parte degli studi epidemiologici oggi conferma il legame di genere tra donne e depressione.

https://it.wikipedia.org/wiki/Areteo_di_Cappadocia
https://it.wikipedia.org/wiki/Avicenna
https://it.wikipedia.org/wiki/Johann_Wier
https://it.wikipedia.org/wiki/Alexander_Pope
https://www.poetry-archive.com/p/on_a_certain_lady_at_court.html
https://it.wikipedia.org/wiki/Mary_Wollstonecraft
https://it.wikipedia.org/wiki/Walter_Benjamin
https://en.wikipedia.org/wiki/Elizabeth_Lunbeck
https://it.wikipedia.org/wiki/Anemia_ipocromica
https://en.wikipedia.org/wiki/Elaine_Showalter
https://en.wikipedia.org/wiki/George_Fielding_Blandford


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Messaggio  canterel II Dom Mar 08, 2020 2:26 pm

P.S. Non mi ero reso neanche conto, poco fa, che con un tempismo perfetto stavo pubblicando il pippone qui sopra sul rapporto tra melanconia, depressione e genere femminile proprio l'otto marzo!

me ne scuso e faccio i migliori auguri a tutte le utenti. flower
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Lettura condivisa: The Nature of Melancholy Empty Introduzione: Seconda parte (6)

Messaggio  canterel II Mar Mar 10, 2020 11:38 am

INTRODUZIONE - Seconda parte: La melanconia attraverso il nostro sguardo contemporaneo

Narcisismo, autosvalutazione e perdita

Secondo Freud la melanconia è un disturbo narcisistico della perdita, intrinsecamente rivolto al sé. Si tratta di una nuova teorizzazione, non ancora incontrata fra le antiche teorie degli umori e i recenti modelli biochimici.
Alcuni teorici contemporanei, tuttavia, rilevano un’enfasi sull’identità personale e sulla perdita nel linguaggio della melanconia maschile che precede l’opera di Freud. Lynn Enterline (1995. The Tears of Narcissus: Melancholia and Masculinity in Early Modern Writing. Stanford, Calif.: Stanford University Press) rintraccia nella letteratura della prima età moderna una melanconia che ha la forma di un lutto senza fine o senza causa sufficiente, uno stato che sconvolge l’identità del soggetto come essere sessuato e parlante. Anche per Schiesari (1992), l’homo melancholicus rinascimentale rappresenta l’ego che si dibatte con l’oggetto perduto, al punto che la perdita in sé diventa l’aspetto principale, più dell’oggetto perduto. Per Schiesari, però, la perdita implicata nella melanconia è una forma privilegiata dell’espressione maschile, preclusa al lutto delle donne. E per Kristeva (in Sole nero: depressione e melanconia, 1986), la depressione è “il volto nascosto di Narciso”, cosicché “Io trovo gli antecedenti della mia crisi nella perdita, nella morte o nel lutto per qualcuno o qualcosa che una volta ho amato”.  
La melanconia e gli stati melanconici appaiono come disturbi del sé e dell’identità personale, e come malattie della perdita. L’enfasi sulla perdita e il legame con il sé possono anche essere considerati separatamente. Ma nel saggio di Freud sono strettamente congiunti, e ciò ha prodotto un’influenza che si proietta fino ad oggi sulla descrizione diagnostica dei sintomi e sui temi letterari collegati alla melanconia e alla depressione.

C’è un ampio accordo sul ruolo assunto dal Rinascimento quale precursore dell’importanza culturale attribuita all’individuo, o anche quale culla del soggetto moderno, nel senso individualistico in cui oggi lo intendiamo. Quindi, la presenza di temi narcisistici nella letteratura rinascimentale sulla melanconia, rintracciata da Schiesari e Enterline, fa indubbiamente parte di una tradizione che precede di molto Freud. Inoltre il sé ha acquisito importanza anche durante il Romanticismo. Ma gli stati melanconici, invece, implicano una grande enfasi sul narcisismo, la perdita e il disprezzo di sé soltanto dopo il saggio di Freud. Il testo di Freud sulla melanconia definisce la melanconia e gli stati melanconici in termini nuovi. Da una condizione squilibrata e da un umore scorato e inquieto, la melanconia diventa un assetto della mente fondamentalmente caratterizzato da due cose: la prima è la mancanza o il bisogno di qualcosa o piuttosto qualcuno, cioè il lutto, e la seconda è rappresentata da atteggiamenti autocritici.

Possiamo distinguere due stadi del pensiero di Freud sulla melanconia e sul lutto, e del confronto che egli fa tra il lutto normale e gli stati melanconici. Dapprima, nelle lettere a Wilhelm Fliess del 1902, Freud identifica la perdita con la mancanza di eccitazione sessuale. Il lutto è la nostalgia per qualcosa che è perduto, e la melanconia è il lutto per la perdita della libido.
Quando scrive Lutto e melanconia, Freud ha sviluppato le sue nozioni di introiezione e identificazione, e la sua comprensione del narcisismo. Ora, la melanconia si genera attorno alla perdita iniziale e all’ambivalenza dell’oggetto, ossia la madre. L’auto-accusa e l’odio verso di sé, che Freud descrive come tratti centrali del paziente melanconico, riflettono atteggiamenti re-indirizzati verso il sé come ciò che incorpora l’oggetto perduto.

Il parallelo tra l’assetto mentale scorato della melancholia e quello che si ritrova nel lutto normale per la perdita delle persone amate non è certo un’invenzione freudiana. Sappiamo che i testi sulla melanconia hanno ripetutamente abbozzato questo parallelo, almeno a partire dall’epoca elisabettiana. Ma il tipico paragone tra la disperazione, l’apatia e la perdita di interesse ed energia nel lutto normale e nella melancholia è stato solo un punto di partenza per Freud, che ha sviluppato un parallelo più elaborato: la persona in lutto ha perduto qualcosa, cioè qualcuno, e piange la sua perdita; quindi anche il melanconico ha sofferto una perdita.
Seguendo questo filo, vediamo il parallelo con il lutto – innescato da una lunga tradizione letteraria sugli stati d’animo soggettivi della melanconia- condurre Freud ad una serie di ricognizioni. Dapprima, c’è il fatto che la melancholia deve essere identificata con una mancanza, un bisogno, o un’assenza; poi che deve trattarsi della perdita di qualcuno; solo a questo punto si approda all’autosvalutazione e all’auto-accusa.

Tanto fra i commenti estemporanei quanto fra i referti clinici, non si trovano descrizioni della melanconia contemporanee di quella freudiana che diano la stessa importanza all’autosvalutazione. William James, in The Varieties of Religious Experience (1902), osserva che il senso di aver peccato è solo uno di tre temi tipici della melanconia che la pongono su un piano diverso dalla follia vera e propria. E le generalizzazioni di Kraepelin collimano con quelle di James. Al massimo, l’auto-accusa rappresenta una delle molte forme della soggettività melanconica. Nel parlare della più severa melancholia gravis, Kraepelin (1920) nota che le idee del peccato e del rimprovero a se stessi sono in essa più frequenti, ma lo sono pure le idee di persecuzione, mentre la meno grave melancholia simplex, più simile ai casi che Freud o James hanno in mente, è caratterizzata tanto dalla svalutazione di sé quanto lo è dalla svalutazione del mondo (tutto diventa disdicevole per il soggetto).
Le fonti suggeriscono che, almeno per il genere di casi a cui Freud era interessato, l’auto-accusa non era un tratto universalmente riconosciuto della melancholia nella sua epoca. Ad onta della loro natura dichiaratamente “osservativa”, dunque, i rilievi di Freud sull’abitudine all’autosvalutazione dei suoi melanconici potrebbero essere stati suggeriti tanto dalla sua teorizzazione quanto dagli stati lamentati dai pazienti. Più che referti clinici, i suoi casi servono da illustrazioni dei nodi teoretici e concettuali.

Neanche gli studi cross-culturali hanno rilevato sottolineature della colpa e dell’auto-accusa nella sintomatologia espressa con il frasario di altre culture. Nondimeno, nella nostra cultura, dall’epoca di Freud in poi l’autosvalutazione ha acquistato centralità nei racconti soggettivi della melancholia e della depressione.
Nella letteratura psicoanalitica recente, Kristeva ha ampliato e sviluppato l’analisi di Freud sull’elemento della perdita. Kristeva eredita il modello freudiano del “lutto” per l’oggetto materno, ma si spinge oltre con l’inserimento del genere come variabile di questa esperienza. Siamo tutti soggetti alla perdita dell’oggetto, suggerisce Kristeva, e quindi inclini a incorporare o introiettare “l’altro”. Ma il destino delle donne è differente. Come l’introiezione del corpo materno, anche “l’identificazione spettacolare” con la madre che riguarda specificamente le bambine è una fonte della particolare inclinazione delle donne alla depressione. Ecco quindi una teoria che non spiega solo la perdita del melanconico, ma anche l’affinità tra melancholia e femminilità.

Dalle discussioni e dalle teorie che, a partire da Freud, pongono la melancholia o la depressione come perdita, si sono poi divisi due filoni riconoscibili. Un filone (associato ai teorici delle relazioni oggettuali come Melanie Klein, Fairbairn, Winnicott, alla teoria dell’attaccamento di Bowlby e, più di recente, ad autori come Kristeva) resta fedele all’idea espressa da Freud in Lutto e Melanconia, dove il termine “perdita” indica il senso più specifico della perdita di un altro personificato e già posseduto. Anche Radden sottolinea questa connotazione specifica: possono mancare (lack) tante cose e qualità mai possedute, ma perdiamo (lose) solo persone e cose che prima possedevamo.  
L’altro filone (rappresentato, in quest’antologia, da autori come Seligman e Beck), meno associato alla tradizione psicoanalitica e più alle correnti principali della psicologia e della psichiatria, propone una generalizzazione (secondo Radden una volgarizzazione) della depressione come perdita. In questo filone, la perdita e la mancanza si riferiscono in modo indifferenziato al bisogno di qualcosa di desiderato o di desiderabile, non necessariamente un oggetto personificato, né un oggetto già posseduto. Troviamo così riferimenti alla depressione come perdita di autostima, perdita di sé, perdita di relazioni, di agentività, di opportunità - e perfino, in modo tautologico, perdita di stati edonici. Ad esempio, Beck porta l’attenzione al termine gergale loser, derivato da loss, indicante un individuo che perde, nel senso che fallisce o difetta, in ogni senso.
Se quindi l’eco della teoria della perdita freudiana pervade la letteratura contemporanea sulla depressione, occorre dire che spesso questo riverbero è ormai poco rassomigliante alla sua fonte originale.

Nella seconda parte della sua introduzione, Radden ha provato ad illustrare gli effetti di lungo periodo delle suddivisioni invalse con la psicologia delle facoltà a partire dal 17° secolo, e delle nuove categorie scientifiche emerse con il 19° secolo. Inoltre ha tracciato alcuni temi che possiamo identificare alla luce dell’attenzione per il genere e le teorie psicoanalitiche della perdita nella seconda metà del Novecento. I temi e le categorie qui illustrati gettano le basi per la comprensione del periodo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento visto come uno spartiacque e come un momento di avvio per nuovi modelli teorici nella storia della melanconia, della melancholia e della depressione.

https://it.wikipedia.org/wiki/William_James
https://it.wikipedia.org/wiki/Melanie_Klein
https://it.wikipedia.org/wiki/William_R._D._Fairbairn
https://it.wikipedia.org/wiki/Donald_Winnicott
https://it.wikipedia.org/wiki/John_Bowlby
https://it.wikipedia.org/wiki/Attaccamento
https://it.wikipedia.org/wiki/Martin_E._P._Seligman
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Lettura condivisa: The Nature of Melancholy Empty Introduzione: Terza parte

Messaggio  canterel II Mer Mar 11, 2020 11:52 am

INTRODUZIONE - Terza parte: Dalla malinconia alla Melancholia e alla Depressione

Questa terza e più breve sezione del saggio si limita sostanzialmente a riassumere il percorso svolto nelle pagine precedenti.

Schiesari (1992) individua una “Grande età della melanconia” inaugurata dal Rinascimento, raffinatasi con l’Illuminismo, sbandierata dal Romanticismo, feticizzata dal Decadentismo e infine teorizzata da Freud, prima di un suo ritorno cospicuo nella letteratura postmoderna.
Se il Rinascimento e Freud rappresentano quindi due momenti di demarcazione, un altro momento del genere è quello in cui, alla fine dell’Ottocento, la malinconia umana, compensatoria, ambigua e virile si separa dalla depressione aberrante, sterile, muta e femminile.
Dapprima si assiste, almeno nella letteratura in lingua inglese, ad uno slittamento nella fraseologia per cui “melancholy” si associa più strettamente ad una condizione normale, “melancholia” a quella anormale – anche se vi sono eccezioni. In seguito, il termine più recente “depression” va a sostituire sempre più spesso “melancholia”. A questo punto, il concetto di melanconia non riesce più a tenere insieme i significati divergenti.
Con l’accostamento sempre più stretto della melancholia a una malattia mentale, si sono accampate ragioni per diminuire l’importanza dei sintomi strettamente soggettivi in favore di un’analisi comportamentale basata sui segni. Nell’ambito della psicologia scientifica accademica, l’introspezionismo è stato accantonato in favore della psicologia sperimentale e del comportamentismo. Nella psichiatria, il modello di Kraepelin ha tolto enfasi alle descrizioni degli stati melanconici che prima accentuavano le sofferenze e i disagi del soggetto.
Ora melancholia e malinconia divergono: mentre la malattia appare sempre più connotata da comportamenti e stati corporei, le sofferenze soggettive modellate su quelle dei poeti, degli artisti e degli uomini continuano invece ad essere affermate come parte della normale esperienza umana, ma sono più circoscritte e tendono a focalizzarsi sui sentimenti di scoramento e tristezza, lasciando da parte gli stati di ansia e di paura infondata.

Lo studio di Freud sulla melanconia, però, fa a pugni con questa tendenza. In esso, un certo aspetto fin lì trascurato della soggettività melanconica viene sintetizzato, elaborato e modificato. Si comincia a sottolineare l’analogia tra la melanconia – e poi la depressione – da una parte, e il lutto dall’altra, sulla base di una simile esperienza di perdita che è caratterizzata non solo da particolari stati dell’umore, ma anche da forme di autosvalutazione.

Nello stesso periodo in cui avvenivano questi cambiamenti, la melancholia veniva associata al genere femminile: questo avveniva in parte sulla base dell’osservazione empirica – anche se oggi c’è l’intenzione di mettere in discussione i criteri di raccolta dei dati – ma in parte anche a partire dalle teorie psicoanalitiche freudiane e più recenti.
Il legame di genere potrebbe anche provenire da strutture più profonde, come suggerisce la letteratura femminista. La malinconia, con il suo loquace soggetto maschile, lascia poco spazio alla sofferenza muta delle donne. Le donne, piuttosto, cadono vittime della depressione.
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Messaggio  Oudeis Mer Mar 11, 2020 10:33 pm

Quante belle ma inutili parole!

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Messaggio  canterel II Mer Mar 11, 2020 10:51 pm

Oudeis ha scritto:Quante belle ma inutili parole!

grazie, carissimo.
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Messaggio  Oudeis Mer Mar 11, 2020 11:18 pm

prego

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Lettura condivisa: The Nature of Melancholy Empty Introduzione: Quarta e ultima parte

Messaggio  canterel II Gio Mar 12, 2020 1:07 pm

INTRODUZIONE - Quarta parte. A partire da Freud: la depressione clinica

Dopo il saggio di Freud del 1917, almeno nella tradizione in lingua inglese, la categoria patologica della melancholia è stata impiegata sempre più raramente. I sintomi del melanconico sono talvolta ridefiniti come stati d’animo anedonici, caratterizzati dall’incapacità di trarre piacere dalle attività e dagli eventi che dovrebbero essere piacevoli. Al posto della melancholia, vediamo sorgere la depressione clinica.
Ora assunta come disturbo mentale grave o malattia, la depressione è il soggetto di incessanti attività di ricerca e teorizzazioni sia in ambito medico che fuori di esso, a partire dai primi decenni del Novecento.
La relazione tra gli stati melanconici delle epoche passate e l’odierna depressione non è semplice da descrivere. Anche la soggettività melanconica, da condizione di “paura e tristezza senza causa” è divenuta tristezza senza causa con l’aggiunta della dimensione del lutto e dell’autosvalutazione. Ciononostante le vecchie teorie sulla melanconia e la melancholia hanno anticipato, almeno a grandi linee, le analisi del 20° secolo sulla depressione clinica.

Storicamente, si possono riconoscere alcune tendenze dominanti. Nell’ambito della psicoanalisi, certuni aspetti della teoria inaugurata con il saggio di Freud sono stati sviluppati e approfonditi nell’opera di Melanie Klein. A loro volta, gli accenti di Klein sulle prime relazioni oggettuali hanno dato vita a una vivace e influente scuola neo-freudiana rappresentata da esponenti come Fairbairn e Winnicott; ed hanno anche dato origine alla teoria dell’attaccamento legata al nome di Bowlby e ad altri, che pone i disturbi delle relazioni precoci di attaccamento all’origine della depressione e di altre patologie.

Per molti decenni le teorie mediche sono state dominate dal concetto di squilibrio biochimico. Benché non più legate alla teoria degli umori, le analisi biomediche spiegano con deficit, eccessi e disfunzioni di stati biologici almeno le forme della depressione endogene, più severe e resistenti al trattamento, che non avrebbero riconoscibili origini psicologiche. Così, secondo un’ipotesi, l’esaurimento di ammine biogene spiega i sintomi della depressione. Negli anni recenti si sono proposti anche modelli che ipotizzano cambiamenti a danno delle strutture cerebrali all’origine della depressione, riecheggiando le ipotesi della psichiatria somatica del tardo Ottocento.
Queste teorie più orientate alla spiegazione biologica non si sono affermate senza conflitti, anche all’interno del campo della psichiatria. L’influenza di pensatori come Karl Bonhoeffer in Europa o Adolf Meyer in America ha favorito il riconoscimento di alcune forme di depressione come risposte a traumi psicologici. Tuttavia, queste forme “esogene” o “reattive” sono spesso state relegate in secondo piano nella letteratura. Rimane comunemente accettata la teoria della causa organica per la depressione maggiore endogena.
A dire il vero, talvolta anche la depressione endogena è stata spiegata ricorrendo a fattori psicologici e sociali. Una sfida di questo tipo alla causalità organica è stata lanciata ricorrendo al costrutto di “impotenza appresa” (Seligman, M. 1975. Helplessness: On Depression, Development, and Death. New York: W. H. Freeman). Nello studio di Seligman, la depressione è la risposta alla perdita percepita di autoefficacia, ovvero una strategia comportamentale appresa che spinge ad arrendersi. Pur incorporando elementi della teoria della perdita, l’ipotesi di Seligman può essere presa ad esempio per introdurre un nuovo indirizzo nel novero delle teorie fin qui passate in rassegna: un indirizzo che enfatizza le cause culturali della depressione, così come fa anche la teoria cognitivista di Aaron Beck negli anni ’60, anch’essa capace di recuperare alcuni elementi della tradizione precedente sulla melanconia: dando risalto al ruolo di credenze e distorsioni cognitive, essa infatti ricorda i tentativi settecenteschi - come quelli di Boerhaave e di Kant – di comprendere tutte le malattie mentali come forme di pensiero illogico e delirante.
L’esplosione degli studi femministi alla fine del Novecento ha avuto un ruolo di catalizzatore per gli studi sulla melanconia e la depressione. All’interno del campo psicoanalitico, essa ha favorito l’elaborazione delle teorie della perdita, e un ritorno di interesse per la melanconia nell’opera di autrici come Irigaray, Kristeva e Judith Butler. Al di fuori di questo campo, ha allargato la discussione sulle cause culturali, ed ha anche incorporato elementi della teoria della perdita in una forma volgarizzata, per comprendere la depressione alla luce dei ruoli di genere e della socializzazione femminile (come si vede nell’influente opera di Jean Baker Miller sulla psicologia femminile). Ha stimolato la ricerca sul legame di genere tra donne e depressione.
La tassonomia di teorie che abbiamo passato in rassegna finora contiene tre ampie categorie:

teorie dello squilibrio e teorie biologiche;
teorie della perdita;
teorie delle cause culturali.

La ricerca empirica e il lavoro teorico su ciascuno di questi filoni, presi isolatamente o in combinazione, continuano ad espandersi. Diverse spiegazioni multicausali della depressione ipotizzano l’interazione fra un trauma socialmente determinato e fattori biologici o genetici. Per lo più, il trauma è descritto come perdita, nei termini generici e non psicoanalitici di una mancanza. Talvolta permanenti, i cambiamenti biologici derivanti dal trauma sarebbero a loro volta in grado di influenzare gli stati psicologici, in un complesso sistema di retroazione circolare. La pretesa onnicomprensiva di queste teorie multicausali è forse esagerata: anche la distinzione fondamentale tra correlati organici del disturbo ed eziologia organica dello stesso è facilmente ignorata in tanti studi.  

I tentativi di valutare i diversi modelli esplicativi della depressione sembrano condurci fatalmente a chiamare in causa l’antropologia.
La depressione è costante nelle diverse culture? Se riuscissimo a rispondere a questa domanda, potremmo orientarci meglio nella varietà delle teorie. Tuttavia, lungi dall’offrire una facile soluzione alla confusione di modelli incompatibili, l’antropologia culturale serve piuttosto a illuminare le semplificazioni drastiche soggiacenti dietro una simile domanda. Interrogare una persona riguardo al suo funzionamento emotivo significa infatti chiedere almeno sei cose , e non una sola:

Di che sentimenti stiamo parlando?
Quali situazioni suscitano questi sentimenti?
Cosa significano tali sentimenti per le persone che ne sono affette?
Come sono espressi?
Quali regole di esibizione ne guidano l’espressione?
Quando non sono espressi, come sono gestiti?

(così in Shweder, Richard. 1985. "Menstrual Pollution, Soul Loss, and the Comparative Study of Emotions." In Culture and Depression: Studies in Anthropology and Cross-cultural Psychiatry of Affect and Disorder, edited by Arthur Kleinman and Byron Good, 182-215. Berkeley: University of California Press).

Le emozioni hanno dei significati. Comprendere la vita emotiva di una persona richiede un’analisi dei concetti. In questo tipo di indagine, l’eziologia delle emozioni, e le cure somministrate per trattarle, possono anche passare in secondo piano. Il costruzionismo culturale che entra in campo con l’antropologia è diametralmente opposto alle teorie biologiche della depressione: in una prospettiva di costruzionismo radicale, per dirla con le parole di Arthur Kleinman, "la realtà è indipendente dalla biologia" nella misura in cui è modellata dai significati (ancora in Kleinman, A., B. Good, 1985).

https://en.wikipedia.org/wiki/Karl_Bonhoeffer
https://it.wikipedia.org/wiki/Adolf_Meyer_(psichiatra)
https://en.wikipedia.org/wiki/Jean_Baker_Miller
https://en.wikipedia.org/wiki/Richard_Shweder
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Messaggio  canterel II Lun Mar 16, 2020 11:34 pm

PRIMA PARTE DELL'ANTOLOGIA - Da Aristotele a Freud

Ecco la lettura del primo brano della prima parte dell'antologia

Pseudo-Aristotele: Capacità e Melanconia

Lettura condivisa: The Nature of Melancholy Nevere11

Radden in premessa inserisce cenni biografici su Aristotele che tralascio (non sono più accurati di una qualsiasi voce enciclopedica). Per inquadrare il brano nella tradizione, riporto poche cose: l’opera di Aristotele è stata dimenticata in Europa dopo il declino dell’impero romano, ma è stata conservata nella cultura islamica ed ebraica, per poi essere reintrodotta in Europa nel Medioevo. L’attribuzione ad Aristotele dei Problemi è discussa. Più probabilmente, l’autore del testo è un suo discepolo, forse Teofrasto. Il testo presenta 890 problemi, raccolti in 38 sezioni. La discussione sulla melanconia si apre con la celebre domanda, già riportata nel saggio introduttivo:
Perché coloro che sono stati straordinari nella filosofia, nella politica, nella poesia o nelle varie arti erano dei melanconici, o addirittura erano affetti dalle malattie atrabiliari?

La domanda dà per assunta l’associazione tra capacità, successo e melanconia, invitando a dar conto del motivo di tale associazione. L’assunto è naturalmente assai discutibile, ma in virtù dell’autorità di Aristotele e dell’audacia della domanda, i commentatori successivi – in particolare nel Rinascimento – lo hanno accettato senza colpo ferire. Lo pseudo-Aristotele si accontenta di citare alcuni eroi greci ed omerici a riprova dell’associazione: Ercole, Lisandro di Sparta, Aiace, Bellerofonte – a suo dire tutti affetti da malattie atrabiliari. Introducendo questi esempi, l’autore si richiama all’accostamento fatto da Platone tra l’ispirazione e la “malattia sacra” dell’epilessia (che secondo lui è una forma di melanconia). Alcuni commentatori hanno visto in questa discussione una secolarizzazione della nozione spirituale di mania divina o entusiasmo presente in Platone (Radden si richiama ancora a Klibansky, Panofsky e Saxl. 1964., e a Feder, Lillian. 1980. Madness in Literature. Princeton, N.J.: Princeton University Press).
 
Nel 5° secolo a.c. il medico greco Ippocrate aveva gettato le basi della teoria dei quattro umori e, pur non trattando in modo sistematico la melancolia, l’aveva inserita nel novero delle malattie dovute ad eccesso di bile nera, insieme a emorroidi, dissenteria ed eruzioni cutanee. Vediamo che lo pseudo-Aristotele fa sua la teoria ippocratica, sostenendo che un forte eccesso di bile nera possa produrre la melancolia e i più gravi disturbi mentali, mentre uno squilibrio umorale più lieve forma il temperamento malinconico naturale (non patologico). Questo sviluppo della teoria umorale che rende conto del normale carattere malinconico sembra essere un contributo originale del seguace di Aristotele. Questa progressione dello squilibrio verso lo stato melanconico normale diventa un elemento importante nella speculazione di Galeno, a sua volta fonte delle teorie del carattere sviluppate nel Rinascimento e fino al 18° secolo.

Come il corpus ippocratico, il testo aristotelico ammette quattro umori: sangue, bile gialla, flegma e bile nera (quest’ultima associata alla melanconia), e accetta pure che gli umori interagiscano con le qualità di caldo, freddo, umido e secco. Ma mentre Ippocrate abbina strettamente la bile nera con il freddo e il secco, per lo pseudo-Aristotele la bile nera può diventare sia troppo calda che troppo fredda. Le diverse malattie atrabiliari, quindi, dipendono sia dall’eccesso di bile nera nella mescolanza degli umori, sia dalla sua relazione con il caldo e il freddo.
La bile, d’altra parte, non è davvero nera. E allora perché definirla così, perché non verde o blu? Radden si sofferma su due risposte a questa domanda. La prima risposta scommette sul fatto che il legame analogico tra il nero, la follia e lo scoramento possa basarsi su associazioni qualitative inspiegabili e universali (Simon, Bennett. 1978. Mind and Madness in Ancient Greece: The Classical Roots of Modern Psychiatry. Ithaca, N.Y.: Cornell University Press). La seconda risposta, al contrario, sottolinea la necessità di costruzioni mitiche basate su segni e sintomi “di fantasia” come mezzo per rappresentare stati invisibili come la malattia mentale (Gilman, Sander, 1988. Disease and Representation: Images of Illness from Madness to AIDS. Ithaca, N.Y.: Cornell University Press), e osserva che nelle tradizioni occidentali si assegna a ciò che è “scuro” una varietà di tratti negativi.
Radden si sofferma poi sull’osservazione dello pseudo-Aristotele secondo la quale, quando il temperamento è freddo oltre misura, esso determina la disperazione “infondata”, che è profonda nei temperamenti melanconici. Questa idea si fa strada fino al Rinascimento ed oltre, nelle definizioni della melanconia come paura e tristezza senza causa, e nasce probabilmente nel solco della tradizione ippocratica che vede nella tristezza e nella paura prolungate (quindi, si potrebbe inferire, infondate) un segno della melanconia.

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Non so tradurre dal greco (operazione che evoca solo ricordi lontani e angosciosi) e quindi procedo a riassumere il primo brano dello pseudo-Aristotele tratto dalla sezione XXX dei Problemata (dedicata ai problemi riguardanti il pensiero, l’intelligenza e la saggezza) incrociando la lettura di una traduzione italiana con quella del brano in inglese nell’antologia della Radden. L’integrazione mi permette di recuperare anche una gustosa digressione sugli effetti del vino che la curatrice ha scelto arbitrariamente di tagliare ma che mi sembra necessaria a comprendere la concezione aristotelica del funzionamento fisiologico della bile nera.
E’ chiaro quindi che chi volesse una lettura critica e filologicamente impeccabile dovrà procurarsi una buona edizione dell’opera.

Perché coloro che sono stati straordinari nella filosofia, nella politica, nella poesia o nelle varie arti erano dei melanconici, o addirittura erano affetti dalle malattie atrabiliari, come ci insegna la storia di Ercole, tra gli altri eroi?
L’autore sostiene che l’epilessia prenda nome di “malattia sacra” proprio con riferimento alla vicenda di Ercole, affetto da patologie della bile nera che risultano evidenti a giudicare da due episodi: il suo attacco di follia omicida contro i propri figli e, in seguito, l’infiammazione della pelle che lo colpisce prima della sua scomparsa sul monte Eta. Queste infiammazioni apparse anche sul corpo di Lisandro di Sparta prima della sua morte, sono segni di malattia atrabiliare, come lo sono i segni di disturbo mentale di due eroi omerici, ossia Aiace e Bellerofonte: impazzito il primo, solitario e vagabondo il secondo, di cui Omero scrive:  

Ma quando egli fu in odio a tutti gli dei, allora vagò da solo nella pianura Alea, rodendosi il cuore, ed evitando le orme degli uomini.

Oltre a numerosi eroi militari, altri individui notevoli hanno sofferto di bile nera: in tempi più vicini a quelli dell'autore, tra i filosofi si contano Empedocle, Platone, Socrate. Lo stesso si può dire di molti poeti.
L’autore ora distingue due categorie: chi ha effettivamente sofferto di malattie dovute al temperamento melanconico, e chi non ha avuto malattie ma è naturalmente predisposto a svilupparle. In entrambi i casi si tratta di individui che hanno un carattere naturale, dipendente dallo stesso tipo di temperamento.
Per comprendere la capacità che ha questo temperamento di provocare affezioni corporee e psichiche di vario tipo, l’autore paragona la bile nera al vino. L’analogia si basa sul fatto che entrambe queste sostanze provocano alterazioni anche brusche del carattere (l’ubriachezza è paragonata alla melanconia). Il vino trasforma gradualmente i comportamenti secondo la quantità assunta, fino ad arrivare a condizioni gravi simili a quelle di chi è epilettico dalla nascita o affetto da melanconia grave. Lo pseudo-Aristotele nota che gli effetti del vino non sono gli stessi per tutti, perché interagiscono con la struttura biologica diversa del carattere di ciascuno.
Non riproduco la rassegna dei mutamenti di carattere indotti dal vino che sono elencati nel testo, sia egosintonici che egodistonici. Salvo solo la sfrenatezza sessuale, perché è divertente: il vino porterebbe a baciare sulla bocca persone che, a causa dell’aspetto o dell’età, uno non bacerebbe da sobrio.

Il vino è un agente esterno che modifica per breve tempo il carattere, mentre la struttura naturale del carattere è invece permanente.
La causa degli effetti simili risiede nel fatto che sia nel vino che nella bile nera agisce la potenza dello spirito. L’azione dello spirito, quando interessa le regioni genitali, determina l’eccitazione sessuale che gonfia rapidamente il pene. Ne sarebbe un segno la masturbazione precoce dei bambini che non eiaculano, ma comunque traggono piacere dal flusso dello spirito nei dotti vuoti dove solo con lo sviluppo passerà poi lo sperma.

Ed ecco la fisiologia dei fenomeni in questione (non era ancora possibile parlare di termologia) spiegata dallo pseudo-Aristotele:
Possiamo dire che il temperamento melanconico è naturalmente misto; in quanto è una mescolanza di caldo e freddo; perché la natura consiste di questi due elementi. Così, la bile nera può diventare sia molto calda che molto fredda. Infatti una stessa cosa può essere affetta in modo naturale da entrambe le condizioni, come ad esempio l’acqua, che è fredda, ma se è riscaldata abbastanza da raggiungere il punto di ebollizione diventa “più calda della stessa fiamma”, mentre la pietra e il ferro, quando sono riscaldati nel fuoco, diventano più caldi del carbone, anche se allo stato naturale sono freddi. (Per una più chiara trattazione dell’argomento si rimanda ad un'opera Sul fuoco: ignoro se sia un testo perduto della tradizione aristotelica o se faccia riferimento al libro della Fisica).

Ora, la bile nera, che allo stato naturale sarebbe fredda e non presente vicino alla superficie, se invece si trova in quantità eccessive nel corpo produce apoplessia o torpore, oppure disperazione o paura; ma se invece si surriscalda produce allegria e canti, e attacchi di follia, e piaghe infiammate e così via. Nella maggior parte dei casi, provenendo dall’alimentazione quotidiana, essa non modifica gli uomini nel carattere, ma produce un disturbo. Ma coloro che hanno una disposizione melanconica naturale del temperamento, sviluppano subito vari tipi di carattere: quelli in cui la bile è abbondante e fredda, per esempio, diventano lenti e stupidi, mentre quelli in cui è eccessiva e calda diventano folli o ingegnosi, oppure sensuali e facilmente mossi da impulsi e desideri, e alcuni diventano più loquaci.
Ma quando il calore è vicino alla sede della mente, in gran numero sono affetti da mania o entusiasmo, come accade alle sibille, ai divinatori, e ad altri invasati la cui condizione non è dovuta a una malattia passeggera, ma a un temperamento naturale. Maraco di Siracusa, ad esempio, era un poeta migliore quando era folle.  Coloro nei quali l’eccessivo calore si è abbassato ad una misura moderata sono melanconici e tuttavia più intelligenti e meno eccentrici, e in molti modi essi sono superiori agli altri uomini: chi nell’educazione, chi nelle arti, e chi nel governo.

Questo stato incostante della bile nera produce considerevoli oscillazioni di fronte al pericolo, perché a molti uomini capita di reagire in modo incoerente alla paura. Questo si deve al fatto che essi sono diversi nei diversi momenti secondo la relazione che il loro corpo ha con il temperamento. Il temperamento melanconico è variabile in sé, come si vede dai differenti effetti che ha su coloro che soffrono delle malattie che esso causa; perché è come l’acqua, a volte freddo e a volte caldo. Cosicché quando arriva la notizia di un pericolo, se ciò accade nel momento in cui il temperamento è raffreddato, esso rende l’uomo pavido; perché il temperamento apre la strada alla paura, che ha un effetto raggelante. Ma se la bile è calda, la paura la riporta a una misura normale, rendendo l’uomo controllato e inflessibile. Così accade anche nelle manifestazioni quotidiane di scoramento: spesso siamo in condizione di sentirci afflitti, ma non riusciamo a comprendere la causa della nostra sofferenza, e a volte ci sentiamo allegri ma ugualmente non sappiamo perché. Queste reazioni superficiali colpiscono tutti in certa misura, perché una parte delle potenze che le producono è mescolata nel temperamento di ognuno di noi; ma quelli nei quali tali reazioni sono più profonde sono predisposti da una struttura del carattere. Infatti, proprio come gli uomini non si distinguono tra loro perché hanno un volto, bensì per una certa qualità del volto – alcuni sono avvenenti, altri sono brutti, altri non hanno tratti notevoli e sono quindi normali - allo stesso modo coloro che hanno una piccola quantità di bile nera sono normali, ma quelli che ne hanno in eccesso sono diversi dalla maggioranza. Se la bile è satura questi uomini sono molto melanconici, e se il temperamento è formato da una certa mescolanza essi sono fuori dal normale.
Ma se trascurano questo loro temperamento, allora diventano inclini alle malattie atrabiliari, che si presentano in diverse parti del corpo per diversi tipi di persone; alcuni hanno sintomi epilettici, altri apoplettici, altri ancora si abbandonano a un profondo abbattimento o alla paura, altri perdono la prudenza, come è accaduto ad Archelao, re dei macedoni. La causa di questa potenza è nel modo in cui il temperamento si lega al freddo e al caldo. Quando esso è più freddo di quanto richiesto dalle circostanze produce uno scoramento irragionevole: questo spiega in gran parte i suicidi dei giovani, e qualche volta anche degli uomini più vecchi. E molti si suicidano dopo una bevuta (vino e bile nera, come si è detto, hanno effetti simili).
Alcuni, dice lo pseudo-Aristotele, si mantengono in uno stato di disperazione dopo aver bevuto, perché il calore del vino estingue il calore naturale. Ma il calore nelle regioni del pensiero e delle speranze ci rende allegri. Questo è il motivo per cui tutti troviamo desiderabile bere fino all’ubriachezza, perché il vino rincuora gli uomini proprio come la gioventù rincuora i ragazzi; perché la vecchiaia è scorata ma la gioventù è piena di speranza. Ci sono anche alcune persone che cadono preda della tristezza mentre bevono, per lo stesso motivo per cui ad altri accade lo stesso dopo aver bevuto.
Quelli che sono colti da disperazione quando il calore è svanito sono più inclini al suicidio. I giovani e i vecchi tendono maggiormente al suicidio, gli uni perché nei giovani il calore è spontaneamente volatile (si dissipa da sé), gli altri perché la vecchiaia esaurisce il calore. Ma per lo più gli uomini si tolgono la vita nelle situazioni in cui il calore svanisce di colpo, generando negli altri stupore perché non avevano dato segni premonitori.
Quando il temperamento si raffredda a causa della bile nera, allora dà luogo ad ogni genere di disperazione, ma quando si riscalda produce allegria. Questo è il motivo per cui i giovani sono più allegri, i vecchi lo sono di meno: infatti la vecchiaia comporta un raffreddamento. Ma il calore potrebbe essere smorzato da cause esterne, come accade agli oggetti che sono riscaldati nel fuoco e raffreddati artificialmente, ad esempio versando l’acqua sui carboni. Ecco perché alcuni uomini si suicidano dopo aver bevuto, perché il calore del vino è una potenza estranea e, quando svanisce, ad essa subentra l’affezione dolorosa.

In mezzo a tutta questa fisica e fisiologia strampalate (per un lettore contemporaneo), ecco un’altra osservazione gustosa e notevole:
Dopo l’atto sessuale gli uomini sono per la maggior parte scorati, ma quelli che emettono maggior quantità di sperma sono più allegri, perché si sono liberati di un eccesso di residuo, di spirito e di calore. Tutti gli altri si sentono invece abbattuti, perché l’atto sessuale li lascia raffreddati e privi di qualcosa di prezioso, come si comprende a giudicare dalla piccola quantità di sperma.

Per concludere il problema, l’autore riassume così il suo ragionamento: i melanconici non sono tutti uguali nel comportamento, perché la potenza della bile nera è incostante, cioè può essere molto calda o molto fredda. Ma poiché questa influisce sul carattere come fa il vino (essendo il caldo e il freddo le forze biologiche che agiscono per la costituzione del carattere), essa esercita tale influenza in un modo o nell’altro a seconda di come entra in rapporto con il nostro temperamento. Sia il vino che la bile nera sono pieni di spirito. Ma poiché è possibile che anche uno stato incostante sia ben temperato, e che in un certo senso sia una buona condizione, e poiché potrebbe riscaldarsi e poi raffreddarsi a causa di un eccesso, o viceversa, allora tutti i melanconici sono straordinari, non per malattia, ma per loro stessa natura (per la struttura permanente che costituisce il loro carattere).

https://it.wikipedia.org/wiki/Pseudo-Aristotele
https://it.wikipedia.org/wiki/Teofrasto
https://it.wikipedia.org/wiki/Ippocrate
https://it.wikipedia.org/wiki/Ercole
https://it.wikipedia.org/wiki/Bellerofonte
https://it.wikipedia.org/wiki/Aiace_Telamonio
https://it.wikipedia.org/wiki/Lisandro
https://it.wikipedia.org/wiki/Archelao_I_di_Macedonia" />
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Lettura condivisa: The Nature of Melancholy Empty Cassiano: Sull'accidia

Messaggio  canterel II Gio Mar 19, 2020 7:23 pm

Salto a piè pari Galeno e Avicenna – a meno di richieste, anche future, di qualche utente appassionato di teorie umorali – perché devo ammettere che trovo tutta la storia della bile, del caldo, del freddo, del secco e dell’umido relativamente poco interessante dal punto di vista delle indagini sulle esperienze soggettive della melanconia – anche se illuminante da un altro punto di vista: perché consente di intuire quanto i salti tra un paradigma scientifico e l’altro abbiano il potere di far apparire come farneticazioni quelle che in un’epoca antecedente erano teorie mediche accreditate e approfondite con scrupolo dalle migliori teste pensanti.
Vado quindi con slancio a tradurre Cassiano che – opportunamente in questi giorni – ci parla delle insidie e delle beatitudini della clausura.

Lettura condivisa: The Nature of Melancholy Nevere10

Cassiano: Sull’accidia

Radden in premessa fornisce qualche dettaglio sulla vita di Giovanni Cassiano. Educato probabilmente in un monastero nella seconda metà del 4° secolo (nei pressi di Betlemme, stando alle fonti consultate dalla curatrice), è una figura influente nella Chiesa primitiva. Un suo merito cruciale è l’aver trasmesso in Occidente informazioni sul modo di vivere dei “padri del deserto” (eremiti) e degli altri monaci organizzati in gruppi (i cenobiti, ma Radden non sembra distinguere rigorosamente le due categorie) che praticavano l’ascetismo in Egitto. Dopo lunghi viaggi di studio per conoscere questi monaci fra il 390 e il 400, Cassiano avrebbe fondato due monasteri ispirati al modello del cenobitismo a Marsiglia (uno per gli uomini e l’altro per le donne). L’opera principale di Cassiano, De institutis Coenobiorum (da cui sono tratti i brani antologizzati), sarebbe stata scritta intorno al 416 dietro sollecitazione di Castore, vescovo di Apt, e doveva illustrare nel dettaglio il regime di vita dei monaci, descrivendo le regole relative all’abbigliamento, alla preghiera e alle occupazioni quotidiane. I passaggi scelti sono relativi al peccato di acedia (più tardi, accidia), descritta come un particolare stato di abbattimento, comune tra i padri del deserto.
Successivamente, Cassiano ha scritto il testo delle Collationes, riportando in esse le conversazioni tenute con i monaci egiziani, in cui sono riferite le loro esperienze interiori – inclusa di nuovo quella dello stato di acedia. Il termine deriva da una parola greca (ἀκηδία) che significa “mancanza di cura”, ossia indolenza. Cassiano riconduce questo stato d’animo al demone di mezzogiorno, lo spirito dell’invasamento e della mania divina che dall’antichità greca è recuperato alla tradizione cristiana e a cui si allude nel Salmo 91:

Non avrai timore del terrore notturno; né della freccia che vola durante il giorno; né della peste che cammina nelle tenebre; né della distruzione che devasta a mezzogiorno.

L’accidia è uno stato mentale di disperazione, apatia e scoramento, considerata peccaminosa perché distoglie il monaco solitario dall’adempimento dei suoi doveri. Poiché implica sconforto e avvilimento, a volte è stata accostata alla melanconia. Nel Medioevo, l’accidia peccaminosa ha assunto anche il significato di negligenza (desidia). Da una parte associata ad inerzia e lassismo, dall’altra a disperazione e abbattimento, l’accidia sembra irriducibile ad una sola delle due sfere. Secondo Radden è forse meglio considerarla come una terza categoria, che cattura uno stato d’animo legato alla particolare cultura ed esperienza dei padri del deserto.
Quali sono quindi le condizioni peculiari in cui l’acedia è stata riconosciuta e ha preso il suo nome?
Isolamento. Sole cocente e clima secco. Digiuno stretto, lavoro, preghiera. Una vocazione il cui oggetto, per dirlo con le parole di Cassiano,
“…è ottenibile solo attraverso i silenzi e la permanenza costante in cella”.

Alcune tra le idee di Cassiano sull’accidia sono debitrici verso l’autorità di Evagrio Pontico (345 -399), che aveva elencato le otto tentazioni (pensieri maligni) alle quali i monaci erano soggetti, tra le quali era annoverato anche un vizio che poteva essere descritto come sfinimento, languore, tristezza o avvilimento.
I monaci devono servire Cristo con letizia, non con tristezza: questo imperativo è molto marcato nei testi dei padri del deserto.
Seguendo il dettato di Evagrio, Cassiano concepisce l’accidia come effetto di tentazioni demoniache. Queste tentazioni saranno più tardi presentate come gli otto vizi capitali della Chiesa medioevale: vanagloria, ira, tristezza, accidia, orgoglio, cupidigia, gola e fornicazione, ridotti dopo il pontificato di Gregorio Magno (540 – 604) ai sette peccati capitali di vanagloria, ira, invidia, tristezza, cupidigia, gola e fornicazione.
L’accidia tuttavia era un peccato speciale. Secondo Evagrio, essa possedeva una qualità compensatoria perché, una volta sconfitta, dava adito alla letizia, ossia alla più alta di tutte le virtù, e all’unione mistica con dio.

Il discorso di Cassiano sull’accidia ricorre a metafore mediche, ma è molto importante tenere presente che si tratta appunto di metafore. Dando risalto alla sua relazione con il mezzogiorno, egli accosta l’accidia ad una febbre che coglie una persona ogni giorno alla stessa ora. Successivamente, parla di questa condizione come di una “malattia”. Inoltre, Cassiano chiarisce che l’accidia è un disturbo dell’anima e non del corpo, citando il salmista Davide, la cui condizione pare prossima a quella accidiosa quando scrive “la mia anima è assopita a causa della spossatezza”.

Il termine acedia è rimasto in uso fino alla fine del Medioevo, ma ha subito importanti slittamenti semantici. Alcuni autori moderni leggono in esso poco più di un sinonimo di depressione o melanconia, altri pensano che sia possibile sovrapporla all’idea di pigrizia o indolenza. In entrambi i casi si tratta di semplificazioni, ma occorre sottolineare che, fin dall’inizio, nei testi, acedia appare associata a tristitia (avvilimento, tristezza) e poi a desperatio, mentre nel tardo Medioevo è accostata talvolta alla melanconia; allo stesso modo non mancano connotazioni di questo stato che l’avvicinano alla spossatezza, al languore, all’indolenza e alla negligenza (Jackson, Stanley. 1986. Melancholia and Depression. New Haven, Conn.: Yale University Press).

Tra le più celebri descrizioni dell’accidia nel tardo Medioevo spicca quella di Petrarca (nel libro secondo del Secretum) che in un colloquio immaginario con Sant’Agostino ne parla come di una “funesta malattia dell’animo”, un’afflizione che lo tiene avvinto e lo tormenta per giorni e notti di seguito, al punto che

la mia giornata non ha più per me luce né vita, ma è come notte d'inferno e acerbissima morte. E tanto di lagrime e di dolori mi pasco con non so quale atra voluttà, che a malincuore (e questo si può ben dire il supremo colmo delle miserie!) me ne stacco.

Di seguito i brani dal De institutis Coenobiorum di Giovanni Cassiano.

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Di come il nostro sesto combattimento sia contro lo spirito dell’accidia, e di quale sia il suo carattere.
Il nostro sesto combattimento è contro il vizio che i greci chiamano accidia, noi potremmo chiamarlo stanchezza o scoramento. Esso ha affinità con la tristezza, ed è specialmente insidioso per gli uomini solitari, ed è avversario frequente e pericoloso per gli eremiti del deserto; e può essere specialmente molesto nei confronti di un monaco intorno all’ora sesta, come una febbre che coglie il malato in momenti prestabiliti, attaccandolo con il suo calore bruciante con regolarità. Infine, tra gli anziani alcuni dicono trattarsi del “demone meridiano” di cui si parla nel Salmo 91.

Una descrizione dell’accidia, e del modo in cui essa si insinua nel cuore di un monaco, e delle ferite che essa infligge all’anima.
E quando questa accidia si impossessa di un’anima infelice, essa produce insofferenza del luogo in cui si è, ripugnanza della cella, fastidio e disprezzo nei riguardi dei confratelli che abitano nello stesso romitorio o che vivono nei paraggi, che appaiono negligenti e incapaci di elevazione spirituale. Anche il monaco colpito dall’accidia diventa pigro e incurante di tutti i lavori che dovrebbero essere svolti all’interno del romitorio.
Questo vizio non gli permette di restare nella cella, di affaticarsi nella lettura, ed egli spesso si lamenta di non riuscire a fare nulla di buono mentre si trova lì, e piange e sospira perché non ha tratto alcun giovamento spirituale da quando si è unito alla comunità, e afferma sconsolato che le mete spirituali gli sono precluse, e di essere inutile in quel luogo, come uno che, pur capace di guidare gli altri e di aiutare molte persone, tuttavia non educasse nessuno  e simultaneamente non traesse insegnamento dagli altri. Loda monasteri remoti, che si trovano a grande distanza, e descrive questi luoghi come più favorevoli e confacenti all’ottenimento della salvezza; e afferma inoltre che i rapporti tra i membri di quelle comunità sono pieni di letizia e fervore spirituale. D’altra parte, egli dice che tutto gli è penoso, e che non solamente non vi è edificazione reciproca tra i confratelli che dimorano lì, ma che anche il nutrimento per il corpo non può essere procacciato se non con grandi difficoltà. In ultimo, pensa che non starà mai bene in quel romitorio, finché non lascerà la sua cella (nella quale è certo di morire se vi si tratterrà ancora a lungo) e se non se ne andrà il più velocemente possibile. Poi, la quinta o la sesta ora gli porta una tale fame e spossatezza corporea, che gli pare di essere sfinito e abbattuto come dopo un lungo viaggio, o un duro lavoro, o come se avesse sopportato un digiuno di due o tre giorni. Inoltre, scruta ansiosamente in tutte le direzioni e fa segno di non volere che alcun fratello gli si avvicini, e prende ad entrare e ad uscire spesso dalla cella, e spesso guarda in direzione del sole, come se volesse rimproverarlo di tramontare troppo lentamente, e così una particolare confusione e irragionevolezza si impadronisce di lui come una tenebra terribile, e lo rende indolente e inadatto ad ogni opera spirituale, così pensa che non si possa trovare da nessuna parte una cura per un attacco così tremendo, a meno di far visita a qualcuno dei confratelli o di trovare sollievo nel sonno. Allora la malattia gli suggerisce che farebbe bene ad elargire cortesie e doni ospitali ai confratelli e a visitare i malati, vicini e lontani. Parla in eccesso di certi doveri morali e religiosi che vuole adempiere, dice che dovrebbe chiedere notizia dei suoi famigliari e far loro visita più spesso; che sarebbe un’autentica opera di pietà fare visita ad una certa donna pia, devota a Dio, che vive sola e ripudiata dai suoi, e che sarebbe cosa molto migliore procurarle tutto ciò di cui ella ha bisogno; e che insomma lui dovrebbe dedicare con zelo il suo tempo a queste cose anziché restare inutilmente e senza profitto nella sua cella.

O delle diverse maniere in cui l’accidia si impossessa di un monaco.
E così l’anima sventurata, sopraffatta dalle astuzie dell’avversario, patisce il tormento finché, logorata dallo spirito dell’accidia, essa non si rassegna a scivolare nel torpore oppure, spinta fuori dal confinamento nella sua cella, non si risolve a cercare una consolazione contro questi attacchi visitando un confratello, solo per ritrovarsi in seguito ancora più indebolita da tale rimedio. Infatti l’avversario attaccherà più spesso e con più impeto colui che, al principio della battaglia, volta le spalle al nemico per cercare la salvezza nella fuga, anziché nella vittoria o nel combattimento: e così a poco a poco il monaco viene strappato alla sua cella e dimentica la meta della sua professione, che altro non è se non la meditazione e la contemplazione della perfezione divina che eccelle sopra tutte le cose, e che non può essere raggiunta se non attraverso i silenzi e la permanenza costante in cella, e la meditazione, e così il soldato di Cristo trascura il suo servizio e diviene un disertore, e “si immischia nei traffici secolari”, senza più servire colui al comando del quale si era impegnato a rispondere.

Di come l’accidia ostacoli del tutto la mente dalla contemplazione delle virtù.
Tutti gli inconvenienti di questa malattia sono mirabilmente riassunti dal salmista Davide in un solo verso, allorché dice “ la mia anima è assopita a causa della spossatezza”. E dice molto giustamente che la sua anima è assopita, non il corpo. Perché, in verità, l’anima ferita dal colpo di questo patimento è assopita rispetto alla contemplazione delle virtù e alla ricerca dei beni spirituali.

Di come l’attacco dell’accidia avvenga su due fronti.
E dunque il vero combattente cristiano che desidera lottare lealmente nelle schiere della divina perfezione dovrà affrettarsi ad espellere questa malattia anche dai recessi della propria anima; e dovrà lottare contro il demone dell’accidia su entrambi i fronti, così da non cadere assopito nella morsa del torpore, rimanendo nella cella, né uscire dal suo chiostro e darsi alla fuga, neppure dietro scuse pie ed altri pretesti.

Di quanto siano nocivi gli effetti dell’accidia.
Ed ogni volta che l’accidia comincia in qualche misura ad avere la meglio su un monaco, o lo rende indolente e pigro nella sua cella, incapace di compiere esercizi spirituali, o lo spinge fuori di essa e lo rende inquieto e ramingo, inetto ad ogni sorta di lavoro, e lo porta a vagare tra le celle degli altri confratelli e tra i diversi monasteri, senza più curarsi d’altro che di procurarsi qualcosa da mangiare. Perché la mente dell’ozioso non riesce a pensare ad altro che non sia il cibo ed il ventre, finché non trova la complicità di altri uomini o donne, ugualmente freddi e indifferenti, e si perde così in traffici e negozi secolari insieme a loro; rimanendo a poco a poco intrappolata in tali pericolose occupazioni, cosicché, proprio come se fosse avviluppata nelle spire di un serpente, essa perde definitivamente la possibilità di divincolarsi e di ritornare alla perfezione della sua passata professione.

https://it.wikipedia.org/wiki/Castore_di_Apt
https://it.wikipedia.org/wiki/Davide
http://www.laparola.net/wiki.php?riferimento=Sal91-93&formato_rif=vp
https://it.wikipedia.org/wiki/Controra
https://it.wikipedia.org/wiki/Evagrio_Pontico
https://it.wikipedia.org/wiki/Vizi_capitali
https://it.wikipedia.org/wiki/Papa_Gregorio_I
https://it.wikipedia.org/wiki/Secretum
https://www.liberliber.it/online/autori/autori-p/francesco-petrarca/de-secreto-conflictu-curarum-mearum-secretum/
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Messaggio  Oudeis Sab Mar 21, 2020 4:29 pm

Se il termine “depressione” non è un espediente, peculiare della decaduta società odierna, per bollare come psicolabili coloro che un tempo erano considerati uomini dominati dall’umore freddo, si può comunque individuare una parentela tra malinconici e depressi. Il malinconico, oltre a vedere di là dalla superficie delle cose, è naturalmente triste, giacché sente un’ansia di infinito che non può essere appagata. Egli contempla il cielo e lo avverte come un limite; il suo sguardo sprofonda nell’azzurro e nel turchino, fino a quando la sua anima si intinge di quei colori che sono intrisi in una trascendenza inattingibile e in una mestizia consustanziale al mondo. Non a caso, in inglese, l’aggettivo “blue” significa pure “mesto” e “blues” è la “tristezza”. La depressione si potrebbe reputare come un inasprimento della malinconia o come un irrigidirsi dell’umore malinconico sicché l’attitudine cogitabonda, foriera di pensieri terribili ma anche di sulfurei slanci creativi, si congela nella disperazione e nel l'inerzia. Tutto ciò, nonostante il vocabolo malinconia contenga l’aggettivo greco, “mélas” che vale “nero”... ma è un nero bluastro.

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Messaggio  Sogni infranti Dom Mar 22, 2020 3:27 pm

Che cosa ci importa di trovare una relazione tra l'indole malinconica e la depressione? Il depresso non è uno scimunito, ricorda bene cos'era prima della caduta nel pantano, se fosse portato alla malinconia od meno. Rispetto, ovviamente, questo topic ben strutturato, eppure queste sono vane curiosità.

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