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Messaggio  Stef Mar Giu 26, 2012 11:42 am

So già che non mi crederete, e nemmeno io ci crederei se qualcuno mi raccontasse ciò che sto per raccontarvi. Ma lo farò lo stesso.
La storia è tratta dal mio diario personale e l’ho riscritta in forma narrativa solo per renderla più leggibile e perché non ho la preoccupazione di renderla pubblica. Ormai non ho più un ruolo particolare nella vita lavorativa, e non m’interessa se ciò possa influenzare la mia credibilità.
Ma ora veniamo al sodo.



“Roba da matti” mi dissi.
Doriana quando si parlava di certi argomenti si accendeva letteralmente, e ciò si accordava perfettamente col colore dei suoi lunghi capelli rosso rame. Era convinta delle sue idee, cioè della possibilità dei viaggi nel tempo. Il discorso era nato dalla trilogia di Ritorno al futuro di cui avevamo visto i contenuti speciali insieme agli amici. Mitica la scena nella versione originale in cui Marty (travestito da Dart Fener) minaccia il padre per convincerlo ad andare al ballo dove ci sarà la futura moglie (la madre di Marty). Molto più lunga della versione normale.
Il fatto era che tutti e due amavamo quel genere di argomenti. Ci eravamo interessati in passato anche di altri aspetti del mistero come fenomeni paranormali, ufo, vita oltre la morte, esperienze extracorporee, comunicazioni con i morti tramite registratore e medium (in particolare quello del Cerchio Firenze 77). Ma un conto era il chiedersi cosa significassero quei fenomeni, gli avvistamenti di ufo eccetera, e tutt’altra cosa era credere sul serio negli spostamenti al di là dello spazio e del tempo, e ancora peggio nell’esistenza di incroci tra universi paralleli. Certo, c’era la teoria delle superstringhe… ma quella dimostrava solo l’esistenza di undici dimensioni, e cioè dieci spaziali e una temporale, non di “viaggi nel tempo” e “dimensioni parallele” che erano tutt’altra cosa.
Meno male che lei era sempre allegra e la divergenza dei nostri punti di vista la divertiva invece che irritarla. Con gli altri era meno clemente, infatti la giudicavano una “tosta”.
Giungemmo al palazzo dove abitava verso le undici. Era un palazzo monumentale fuori città, il portone era molto alto e nell’androne c’erano ancora i paracarri in basalto, ricordo d’altri tempi. Lì sotto sembrava che il tempo si fosse fermato alla metà dell’ottocento.
Era di luglio ed era gradevole trattenersi – come sempre – e parlare solo del film non ci bastò. C’erano argomenti molto più terreni che condividevamo e che amavamo: noi, i nostri trascorsi, la società – quelli sì che erano due mondi paralleli. Parlammo sulla necessità di cambiare il mondo, io citavo spesso Avere o essere? di Erich Fromm e L’uomo a una dimensione di Marcuse, tutti e due della Scuola di Francoforte.
Lei sfoggiava il suo repertorio di donna “impegnata” con L’anarchia di Errico Malatesta, la storia di Che Guevara, di Lenin e le antiche pubblicazioni di Lotta Continua e libri di autori del calibro di Guido Viale, Adriano Sofri e compagnia bella. Diceva che bisognava intervenire lì dove il sistema ci alienava e indottrinava. Lei frequentava un gruppo che faceva degli incontri settimanali, ma non mi aveva mai spiegato cosa facessero esattamente se non che era collegato al discorso di sovvertire radicalmente il sistema – in senso metaforico diceva lei, – sistema che ci ha resi automi costretti a comprare cose per impulsi indotti ed eterodiretti. Il sistema metteva in risalto tutte le risorse negative sia a livello personale che globale, e premiava l’apparire invece dell’essere incitando ad una forte competizione. Il popolo era schiavo, costretto a vivere un vile livello materiale soffocando quello emotivo, affettivo, artistico. L’intelligenza creativa sarebbe stata sterminata se non si interveniva in tempo, e con essa il destino dell’umanità. Io ero d’accordo su tutta la linea.
Poco prima di mezzanotte ci salutammo e voltai l’auto verso casa. Non finii nemmeno di fare la manovra che lo vidi. Era un signore… con qualcosa che non quadrava.
“Che diavolo ci fa quello lì in mezzo alla strada a mezzanotte?”.
Non mi sarebbe importato gran ché se non fosse che quello s’era piazzato proprio davanti la mia Mini Cooper e mi fissava. Quel tipo aveva indubbiamente qualcosa che non andava. Il suo aspetto era normale ma l’età… no, era vecchio o almeno doveva esserlo dato l’abbigliamento. Indubbiamente era distinto ma l’abito non era di quelli attuali.
Era vestito in nero con una giacca larga, piena, sembrava come se le maniche fossero state attaccate un po’ più sopra delle spalle. Sotto portava un gilet scuro e una cravatta. Il nodo mi sembrava più largo del normale ma forse era solo un’impressione. Sul gilet c’erano due grosse catenine in orizzontale che chissà a cosa servivano. Non ne capisco molto di cravatte e di abiti eleganti. Mi colpirono molto i grossi baffi con le punte rialzate che gli conferivano un aspetto burbero eppure lui sembrava trasognante. I capelli avrebbero dovuto tradire un’età avanzata ma non ne ero del tutto sicuro.
Aveva un ombrello. Si vedeva benissimo che non pioveva (e non sarebbe dovuto piovere in quei giorni).
Mi guardava come se aspettasse di essere avvicinato.
«Cosa vuole, signore?» chiesi tra l’intimorito e l’infastidito.
«Signor Staffelli?»
«Sì, sono io.»
Aveva un sorriso non tanto allegro.
«Stasera ha parlato con la sua amica Doriana, vero?»
«Ma… come diavolo fa a sapere il suo nome? Chi è lei?»
«Vede, questo non ha molta importanza. Avete parlato molto a lungo di cose particolari.»
«Continuo a non capire come ne sia venuto a conoscenza e non continuerò questo dialogo se non mi dice CHI È lei!»
«Sono un uomo d’altri tempi, diciamo così, e non ho molto tempo da perdere.»
«E allora finiamola con questa pagliacciata e ognuno per la sua strada. Arrivederci.» Misi la prima e partii di scatto. Non riuscivo a capacitarmi di come facesse a conoscere non tanto il nome di Doriana, quanto del nostro discorso. Ero sicuro che non c’era anima viva vicino a noi quando avevamo parlato, eppure… no, non avrei dormito se non avessi saputo e capito. Tornai indietro.
Il sorriso enigmatico era sempre lo stesso. Non finii nemmeno di abbassare il finestrino che continuò a parlare come se non mi fossi mai allontanato.
«Avete parlato molto dei paradossi dei viaggi temporali e fra dimensioni parallele.»
Rimasi senza parole.
«Noi possiamo andare avanti e indietro nel tempo, signor Staffelli.»
La faccenda si stava facendo sempre più maledettamente misteriosa. Già, e ora che ci pensavo, come faceva a conoscere il mio cognome?
«La società, anzi il mondo va cambiato, non è d’accordo?»
Non fiatai, aspettavo di vedere dove andasse a parare.
«Guardi» e mi piazzò un orologio da taschino davanti agli occhi. Oscillava leggermente da destra a sinistra come un pendolo.
«Prenda» disse il tale. Scesi dall’auto.
«Forza, lo prenda» esortò quello vedendo la mia esitazione. M’incazzai dell’insistenza e in un impeto glielo strappai di mano. Lo guardai meglio, mio nonno me ne regalò uno uguale tanto tempo fa, alla promozione dell’esame di terza media. Era intarsiato, ed era bellissimo come il ricordo che serbavo di lui. Alzai lo sguardo ma lui non c’era più. Mi guardai intorno. Tutto era cambiato.
Era giorno e la mia auto non c’era più.
Gli uomini portavano tutti il cappello a cilindro. Erano vestiti in maniera elegante ma all’antica.
«Stupefacente!» esclamai. Quel trucco aveva qualcosa di magico, sarebbe stato bello crederci. Non sapeva il vecchio che io avevo letto I segreti dell’ipnotismo a quattordici anni. Guardai incantato l’aria natalizia e gli addobbi sfarzosi, ma non c’era nemmeno un’insegna luminosa! Non una serie di lampadine ma solo finti fiocchi di neve… no, era neve vera! Che allestimento: ma tutto in mio onore? No, forse anche altri erano stati vittime di quella specie di gioco. Decisi di godermi lo spettacolo alla faccia sua. Agganciai l’orologio a un passante e lo misi nella tasca dei jeans.
Gli uomini si levavano i cappelli quando incontravano una signora, un orologio su un palo tipo vecchio lampione completava la scenografia. I numeri erano stile ‘800 e le lancette a forma di picche. I palazzi erano antichi, tipici dei centri storici delle grandi città europee.
Le donne erano un vero spettacolo, mi dovetti trattenere dal ridere.
Avevano un cappello con una falda larga avanti e con delle pieghe, qualcuna portava persino dei fiori nella parte anteriore! Le acconciature erano decorate con un fiocco dietro la nuca e finivano su colletti larghissimi. Le maniche erano a sbuffo fino ai gomiti e le cinture erano così strette che sembravano tagliarle in due, in effetti erano tutte magre come dei grissini. Sotto portavano gonne gonfie che scendevano fino a terra (ovviamente sporche di polvere). Solo le giovani portavano i capelli sciolti.
Entrai in un “cafè”, avevo voglia di un cappuccino col cornetto ma, a parte che non l’avevano ancora inventato, non avevo soldi per quell’epoca e non potevo chiedere certo l’elemosina senza farmi notare. In verità già mi guardavano tutti ma erano così galanti e formali che nessuno mi disse niente. Vicino alla cassa c’era un mensolone di legno scuro con una rivista, Nuova Antologia. L’aprii e lessi casualmente un articolo:
«La condizione della donna è al di sotto del valor suo intellettuale e morale, e in quella la donna non trova, se non in casi eccezionali, una durevole felicità. Questa condizione è ad un circa la medesima che le fu imposta nei primi albori della civile società; e siccome ogni cosa cammina progredisce e si trasforma, la immobilità della condizione femminile è opposta alla natura delle cose e della umana famiglia…».
Era del 18 dicembre 1866 a firma di una certa Cristina di Belgiojoso.
Bene, almeno sapevo di che anno si trattasse. Certo non m’aspettavo che a quell’epoca una donna potesse scrivere di femminismo. Ma proprio questa contraddizione fra l’emancipazione femminile e l’epoca vittoriana mi fece dubitare del fatto che questo passato in cui ero stato catapultato fosse frutto di suggestione. Se fosse stato frutto d’ipnosi, di una costruzione mentale indotta, sarebbe stato più coerente farmi trovare una società meno evoluta, soprattutto dal punto di vista femminile.
Mentre ragionavo chiedendomi queste cose s’avvicinò una giovane donna con un cappellino.
«Signore, avete perso questo» e mi porse l’orologio. M’era scappato dal taschino, la catenella non era stata agganciata bene. Me lo misi in tasca, avrei pensato poi a rimetterlo nel passante.
«Da dove venite, signore, se mi posso permettere?» La gente ci guardava come due extraterrestri.
«Non vi preoccupate, ci guardano perché non hanno mai visto una signora che dia da parlare ad un gentiluomo sconosciuto» aggiunse come per mettermi a mio agio. Rimasi colpito dal suo sorriso gentile e dalla ciocca rossa rame che fuoriusciva dal cappellino.
«Da dove venite, signore, se mi posso permettere?»
«Io… io non saprei dirti… vengo da molto lontano.»
«Non fa nulla, siete diretto da qualche parte? Vedo che siete spaesato, se me lo consentite.»
«Io… io non lo so, cioè… sì. Ma… tu sei di qui, vero?»
«Certo!» disse sorridendo con una fossetta sulla guancia sinistra che era uno spettacolo.
«Allora portami in un albergo, vorrei mettermi un po’ in ordine.» In realtà sarà stata l’emozione o quello che è, mi stavo pisciando sotto.
«Oh, credo che avete bisogno anche di cambiare abito se non vi va di attirare l’attenzione di tutta la città, signor...»
«Salvatore, mi chiamo Salvatore. Ma dammi del tu, ti prego.»
«Va bene. Voi… oh, scusa, tu sei un tipo davvero interessante.»
Dopo aver fatto pipì in un vaso da notte posto su uno sgabello dell’albergo la raggiunsi. La donna mi portò in un negozio dove c’erano ben pochi abiti. Era molto scarno di merce e di arredamento, m’aspettavo chissà quale lusso avessero in quell’epoca i negozi… C’era un solo commesso che commesso non sembrava per niente. Aveva un panciotto grigio scuro su una camicia bianca a maniche lunghe risvoltate, occhialini e pantaloni grigi rigati. Era all’avanguardia, mi disse la donna.
«Prego, posso servirvi in qualche modo signore?»
«Vorrei un abito…»
«Da passeggio» aggiunse subito lei vedendo la mia indecisione. Il tale prese un metro di stoffa con il disegno dei centimetri: veramente all’avanguardia, pensai. Non era un semplice negozio, era un sarto e gli abiti erano pochi solo perché non esisteva alcuna produzione industriale. Diede appena uno sguardo ai miei jeans e alla camicia alla Miami Beach, era evidente che non voleva dare l’impressione di essere curioso. Molto formale ma con mano esperta e veloce. In quattro e quattr’otto mi spicciò.
«Sarà pronto domenica.»
«Ah, siete aperto…» mi trattenni dal continuare, mi ricordai che la pausa settimanale fu una conquista del ‘900 o almeno così ricordavo.
«Sono aperto dalle dieci del mattino alle dieci di sera, signore.»
«Orario continuato?»
«Certo, certo signor Salvatore» disse la mia salvatrice. Mi spiegò poi che era cosa risaputa.
Eravamo in strada camminando lentamente, là nessuno andava di fretta a differenza delle nostre città.
«Posso chiederti di soddisfare una mia curiosità?»
«Certamente!» Come si poteva rifiutare ad una donna così?
«Cosa ne pensi delle donne?»
«Credo che siano persone uguali agli uomini ma anche diverse e bisogna rispettare questa differenza. Per esempio io penso che nel sesso vadano rispettati i tempi della donna e non dell’uomo, e lo dicono pure le ricerche scientifiche…»
«Piano, piano, mi stai sommergendo di concetti a me inusuali! Tu vuoi dire che nell’intimità gli uomini devono essere… come dire… rispettosi?»
«Certo, altrimenti che razza di uomini sarebbero!»
Lei rimase soprappensiero guardando in un punto lontano della strada.
«Senti, cosa mi dici dell’indipendenza economica delle donne?»
«Niente, da noi ce l’hanno già, e credo pure che vadano favorite le donne lavoratrici che hanno figli. È inumano lavorare il doppio per non essere riconosciute. Ci vogliono asili nei posti di lavoro, nelle stazioni ferroviarie dove esse sono pendolari, voglio dire che ogni iniziativa possibile e immaginaria deve essere intrapresa affinché siano liberate.»
«Mi sembra molto bello ciò che dici ma anche molto utopistico» disse lei.
«Cara mia, io ero femminista ancor prima del '68 e lo sono tuttora che è passato di moda. Sarò un inguaribile utopista ma sono orgoglioso di ciò!»
«Come a dire che elle abbiano il diritto di lavorare e nello stesso tempo di essere aiutate a badare ai loro pargoli?»
«Esatto… ma come ti chiami?»
«Ermenegilda.»
«Okay bella, ti chiamerò Gilda.»

(fine 1^ parte)


Ultima modifica di Stef il Dom Lug 01, 2012 1:57 am - modificato 1 volta.
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Messaggio  Stef Mar Giu 26, 2012 11:49 am

Il mio vero nome è Salvatore Staffelli. Stefano Starano è il mio nick in diversi siti, a me molto caro perché è il protagonista di una storia che ho scritto io, fra le varie che ho scritto è la più significativa. In più il personaggio, seppure di fantasia, mi riflette molto.
Per chi lo volesse, può controllare su Google, altro non posso dire in questa sede, ma se mi scrivete in messaggi privati vi risponderò su tutto.
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Messaggio  Stef Sab Giu 30, 2012 1:11 am

L’abito di cortesia che mi aveva dato il sarto in attesa di quello definitivo mi andava corto di maniche e di gambe, lì non c’erano persone alte come me. I sottopiedi mi furono tagliati. Inoltre il cilindro di raso lucido accentuava ancora di più la mia altezza, senza contare la giubba attillatissima che mi snelliva. Fortunatamente Gilda non sfigurava con me, era snella e più alta delle sue contemporanee.
Camminavamo ormai da un’ora allontanandoci sempre più dall’albergo. Chissà perché, ma avevo la vaga sensazione che non avesse nessuna intenzione di lasciarmi.
Incontrammo una donna con un bastone sulla spalla con due ceste alle estremità piene di frutta. Ci guardava, forse le due si conoscevano. Difatti Gilda la salutò e le diede un sacchetto pieno di monete senza farsi notare troppo, doveva essere un bel gruzzolo. Si intravedeva una sagoma di monete simili ai due euro, quindi erano almeno duecento euro dell'epoca. Altro che elemosina! Un gesto notevole che oltretutto sembrava abituale. Ammirevole pensai.
«Senti Gilda, posso chiederti una cosa? Ma dove mi stai portando, a sperdere?»
«Non capisco» rispose lei. Il suo sguardo era bello anche quando era stupita.
«No, è un termine che usiamo noi a Napoli.»
«Oh Salvatore, sei dunque di Napoli! Avevo ben donde di meravigliarmi, non potevi essere uno straniero, parli come noi!»
«Be’, vedi, questa è una lunga storia.»
«C’è tutto il tempo.»
«Ma stasera devo tornare in albergo.»
«Se me lo consenti ti posso ospitare io. Ho una tenuta con una villa, sai?»
Rimasi di stucco, una giovane donna di quell’epoca che m’invitava a casa sua, e bella per giunta!
Salimmo sulla carrozzella che lei aveva noleggiato per venire in città. Non pensai di aiutarla, fortuna che il cocchiere lo fece senza aspettare me. Arrivati nella tenuta fatta di viali immersi in un bosco, mi fece entrare nella sua villa. Era di stile ottocentesco (e come poteva essere diversamente) con un patio di quelli che mi faceva morire di goduria. Ma questo non glielo dissi. Mi fece accomodare in un salotto grande come la mia casa e si sedette al pianoforte dopo avermi fatto accomodare. La musica la riconobbi subito, era Per Elisa di Beethoven. Lei la suonava da mozzare il fiato, roba da farti innamorare della prima che ti passasse accanto.
«Ti piace?» disse lei soavemente.
«Un sacco!» risposi ancora riprendendomi dallo stupendo shock emotivo.
Mi sedetti su un divano che ricordava vagamente quello di mia nonna. Mi sentivo estasiato e mi guardai intorno incuriosito. C’era un’enorme credenza con una sfilza di medaglie e stemmi militari, e delle belle spade anche. Avevo l’impressione che fossero affilate, molto affilate. In cuor mio pregai che non arrivasse nessun uomo amico o nemico che fosse. Poi osservai un dipinto sulla parete con una cornice dorata, davvero bello, era la rappresentazione di un bacio molto appassionato.
«È un Hayez» disse sorridendomi.
«Oh» mi uscì dalle labbra, mi trattenni appena in tempo dal dire “e chi cavolo è?”.
«È un pittore spagnolo, vero?»
«No, veneto, Francesco Hayez.»
Allora lei intuendo il mio imbarazzo si alzò, e con grazia ed eleganza si allontanò.
Mi addormentai sul divano rimirando il tutto.
Sognai beatamente che stavo dando un bacio lungo e intenso a Gilda.
«Buongiorno signore!»
Mi alzai di scatto.
«Buongiorno» risposi istintivamente. Alcune sue amiche avevano un incontro, evidentemente. Mi sentii spaesato, meno male che non mi ero tolto le scarpe. Mentre mi aggiustai sul divano arrivò Gilda con un tè che era stato fatto giungere direttamente dall’India tramite un mercante d’oppio, mi dissero. Le signore si accomodarono intorno ad un tavolino di ciliegio intarsiato. Era un vero sfizio vederle tirarsi su le gonne, sembravano lanterne cinesi!
La più anziana mi guardò con un sorriso cortese ma non più di tanto, e “gentilmente” disse rivolgendosi a me:
«Ermenegilda non ci aveva avvisate che ci sarebbe stato anche un uomo all’incontro del mercoledì.»
«Non c’è problema» dissi, «ho alcune commissioni da fare, anzi, devo andare, s’è fatto tardi…»
«Salvatore è uno di noi» disse interrompendomi Gilda. «Può rimanere.»
Strana terminologia per una di quell’epoca. Cosa voleva dire con quel “è uno di noi”?
«Signor Salvatore, siamo curiose di conoscere il vostro pensiero sulle donne» disse una bionda niente male.
«Oh, sì sì!» disse un’altra giovane magra come una mazza di scopa.
«Zitta Elisa, fa’ parlare il signore.»
«Che cosa volete sapere esattamente?» feci io per prendere tempo. Mi sentivo come il Presidente davanti ai membri del Congresso degli Stati Uniti mentre aspettano la sua decisione di entrare in guerra o meno. Le altre si guardarono come se dovessero decidere qualcosa. Parlò la più anziana.
«Vorremmo sapere, per esempio, cosa ne pensate del diritto di voto.»
«Ne ho già parlato prima con Gilda, aggiungo solo che sappiamo che il diritto di voto spetta a tutti, i maggiorenni, s’intende, insomma, quelli che hanno almeno diciotto anni. Sappiamo anche che non è obbligatorio ma io personalmente credo che bisogni votare sempre, anche se magari si vorrebbe andare a fare il week-end in un bell’agriturismo. Altrimenti è inutile lamentarsi se salgono corrotti, scansafatiche o altre belle categorie da mani pulite. Per me l'assenteismo non ha senso.»
Le donne si guardarono ma non dissero nulla.
«La settimana scorsa abbiamo fatto una riunione sul grido di dolore di Vittorio Emanuele II. Dateci una vostra opinione, vi prego.»
«Non sapevo che si fosse fatto male, mi dispiace.»
«Veramente…» si vedeva che la vecchia c’era rimasta male, «Il Grido di dolore è l’appellativo che noi diamo al discorso che il re tenne al Parlamento Sardo nel ’59. Ma forse non è più un argomento… attuale, avete ragione, sono passati sette anni. Sarebbe interessante, invece, sapere se ritenete giusta la legge Casati nel punto dove parla della separazione tra la formazione tecnica, volta a formare la classe operaia, e quella classica volta a formare le classi dirigenti.»
«Certamente la specializzazione è una cosa buona. Oggi per esempio va molto l’ingegneria informatica o anche la gestionale, ma vanno forte anche i fisioterapisti e i pasticcieri. Ma non credo affatto nella discriminazione tra ricchi, poveri, forzisti, ecologisti, extracomunitari, leghisti o interisti che siano, anche se nessuno mi deve toccare il Napoli. Per il resto siamo tutti sulla stessa barca, le differenze non devono contare, almeno a scuola.»
«Quindi siete favorevole anche al riconoscimento sulla parità fra i sessi nell'ambito dell'educazione contenuta in questa legge, suppongo» disse la bionda.
«Sicuro, io…»
«La Proclamazione dell'Emancipazione del presidente americano Lincoln…» intervenne convulsamente la mazza di scopa prima che finissi di rispondere. Dovette fermarsi per riprendere fiato tanto era eccitata: aveva trovato finalmente un gallo in mezzo alle galline che aveva qualcosa da dire. Tuttavia anche le altre mi ascoltavano e mi guardavano con interesse e curiosità.
«…con la successiva ratifica dell'Emendamento XIII, non vi sembra una vera e propria rivoluzione?»
«Ah, sì, certo» dissi sperando di aver risposto bene.
«Che ne pensate dell'operato del ministro De Sanctis per unire le amministrazioni scolastiche dei vecchi stati separati della nostra Italia?» chiese l’anziana.
«Ha lavorato per una giusta causa, direi.» Qua ero andato a naso.
«E Les fleurs du Mal, ovvero per vostra cultura I Fiori del male, cosa ne pensate di questi?» intervenne la bionda con uno sguardo languido da far resuscitare un morto.
«Quello lo conosco, era francese. Secondo me è stato il miglior precursore della Beat Generation. Lo so perché un mio collega si è laureato in sociologia e ha fatto la tesi su questo.»
La vecchia prese un libro.
«Conoscete questo?»
«Se me lo fate vedere…»
«Prego» e mi porse il volume. Il titolo era tutto un programma: Sull'origine delle specie per mezzo della selezione naturale o la preservazione delle razze favorite nella lotta per la vita. L’autore era nientedimeno che Charles Robert Darwin. Bene.
«Chi non ne ha sentito parlare, è quel tale della teoria dell’evoluzione» dissi.
«Voi credete che le specie si evolvano nel tempo attraverso il processo di selezione naturale oppure che essendo esse create da Dio siano perfette ed immutabili?»
«Ah, qui non ci piove: è buona la prima!»
«Bene» disse Gilda. «Penso possa bastare.» Le altre annuirono. Ma l’anziana prese un altro libro e me lo diede senza chiedermi permesso.
«E questo libro lo riconoscete? È molto famoso.»
Lo guardai, il titolo era I carbonari della montagna e l’autore era Verga. Per me buio assoluto. Vedendo il mio smarrimento Gilda guardò la vecchia di sbieco, poi volgendosi verso di me spiegò pazientemente che si ispirava alle imprese della Carboneria calabrese contro il dispotismo napoleonico di Murat. Sempre Gilda mi chiese cosa ne pensassi della Carboneria.
«Penso proprio che i carbonari fossero una società giusta anche se del tipo “setta massonica”. Ma nulla a che vedere con la P2 di Gelli» dissi sicuro di me. Mi ricordavo ancora qualcosa dei “carbonari”.
Erano tutte ammutolite, forse non ero stato chiaro.
«Volevo dire che io e i Carbonari siamo sulla stessa lunghezza d’onda… insomma in sintonia, capite, anche se solo virtualmente per ovvi motivi. E voi? Mi avete fatto un terzo grado che manco la CIA m'avrebbe fatto ma non mi avete detto la vostra.»
Silenzio assoluto. Mi guardavano come fossi un esquimese paracadutato nella Repubblica del Congo. Forse non avevo usato i termini giusti.
«Signor Salvatore» disse l’anziana, «voi sapete perché noi ci riuniamo il mercoledì?»
«Perché gli altri giorni siete occupate, credo.»
«No» disse Gilda guardandomi senza sorridere.
«Eleonora intendeva il “motivo” per il quale ci incontriamo. Non è per conversare.»
Allora capii. Facevano parte di una qualche setta segreta, perciò quel libro di Verga. Doveva essere qualcosa di antesignano al femminismo che non si chiamava così ma era così.
«Sì, l’immagino. Ma cosa c’entro io?»
«Voi siete un uomo mentre noi siamo donne. Non possiamo entrare nei circoli del potere.»
«Ma avete un parlamento…»
«… e un re» finì la frase Gilda. «L’unità d’Italia non ha risolto tutti i problemi. Il parlamento è formato da principi, duchi, marchesi, ufficiali, avvocati, medici, ingegneri e sono solo uomini
«Ehi aspettate, io non…»
«Voi siete l’unico su cui possiamo contare. Le vostre idee sono proprio quelle che vorremmo fossero approvate come leggi» disse stavolta senza sex appeal la bionda. Era stata tutta una “parte” la sua. La faccenda puzzava di trappola.
«Ma che posso fare io? Sono poco meno di uno straniero, e poi vorrei tornare a casa se non vi dispiace.» In realtà mi ero quasi fatto convincere. Che razza di carattere fesso che ho, non mi ci posso capacitare.
«Ma ora signor Salvatore siete qui e non è un caso. Se voi siete come noi pensiamo avete il dovere civico e morale di aiutarci, noi non possiamo entrare nei luoghi deputati al cambiamento.»
«E secondo voi dovrei fare carriera e diventare un uomo politico e cambiare le leggi tutto da solo?»
«Noi non possiamo farlo direttamente ma i nostri mariti sì, e noi abbiamo una grande influenza su di essi.»
«Okay» dissi. Non saprò mai perché mi uscì quella maledetta parola di bocca.
«Che vuol dire “occhei”, che accetta?»
«Sì… accetto.»
«Bene, domani fatevi trovare alla piazza Giuseppe Garibaldi dinanzi la stazione del treno di Napoli, la conoscete?»
«Chi, io? Ma per chi mi avete preso, anche i giapponesi la conoscono!»
«Un signore nostro amico vi consegnerà un fascio di documenti sigillati a firma del Re preparati da un ottimo artigiano che ci deve diversi favori. Ci sarà anche Gilda ma si manterrà lontana, voi la raggiungerete poscia.»
Capii che voleva dire che l’avrei raggiunta dopo (poscia).
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IL VECCHIO - (a puntate in questo post) Empty IL VECCHIO (3^ parte)

Messaggio  Stef Dom Lug 01, 2012 5:01 pm

Quando se ne andarono tutte le amiche lei mi diede il buonanotte e si ritirò nella sua stanza al piano di sopra.
Rimasi impalato come un imbecille al centro del salone.
«Ehi, e io che faccio?» ma non mi sentì.
Io pensai che avesse una stanza per gli ospiti, o che avesse preparato una stanza per me. Ma poi non avevo capito, era sposata? Forse mi dovevo adattare e stendermi sul divano? Forse la cosa migliore era chiederlo a lei. Mi decisi e salii al piano di sopra. Bussai alla porta. Lei mi aprì senza chiedermi nulla.
Era uno spettacolo. D’un tratto vidi una donna diversa, informale e stupenda comparire davanti ai miei occhi. Rimasi turbato.
«Ti meravigli? Questo è il mio abito da casa.»
S’era tolta la gonna pomposa e la gabbia che la reggeva. Senza cappellino e con i lunghi capelli rosso rame sciolti risaltò l’ovale chiaro del suo viso, un vero ritratto d’autore. Una sottoveste aperta davanti fasciava il suo corpo lasciando intravvedere il corpetto e i mutandoni.
In effetti lo strano abbigliamento era fatto in modo da non lasciar trapelare nulla, tranne le caviglie. Sembrava un ridicolo costume di carnevale se non l’avesse indossato lei.
«Non mi sono mai fatta vedere in questo modo da un uomo» disse con un sorriso malizioso.
«E allora stanotte dove dormirò?» sussurrai avvicinandomi sempre più al suo orecchio.
«Nel fienile.»

* * *

La mattina mi svegliai tardi, che razza di sogno avevo fatto. Feci per alzarmi ma cazzo, avevo la schiena rotta. C’era fieno sotto di me, fieno intorno, fieno dappertutto!
«È venuta l’ora, devo andare a fare la spesa. Mi raccomando, Salvatore, trovati a mezzogiorno dove sai. Poi ti presenterò la persona di cui ieri.»
Stetti lì un po’ stordito non sapendo cosa dire.
«Molti hanno dato la vita per questa nostra madre patria, ora c’è un altro passo da fare, so che tu sarai all’altezza del compito» e mi baciò sulla fronte.
Rimasi di cazzo.
Alle undici e mezza mi avviai senza essermi lavato perché la villa era chiusa, ed ero ancora col vestito del giorno prima. Sapevo più o meno come arrivare alla stazione. Ricordai che la prima ferrovia fu la Napoli-Portici e che era stata inaugurata nel 1839, non per niente ero stato più volte a Pietrarsa dove c’era il museo dei treni tra Portici e San Giorgio a Cremano.
Arrivai sul posto La gente mi guardava, ero troppo alto per l’epoca. Vidi un tale che sembrava aspettare qualcuno, aveva un fascio di documenti in mano. Diedi uno sguardo all’orologio sicuro di essere stato puntuale ma il vetrino era incrinato. Lo guardai dispiaciuto, si doveva essere fermato quando mi era caduto dal taschino. Le lancette dell’ora e dei minuti erano ferme, anche quella dei secondi. S’erano fermate sulle dodici esatte. Il tale mi individuò subito e mi diede il fascio di carte senza nemmeno presentarsi, mi disse solo “che Dio vi assista”.
Aspettavo Gilda, volevo dirle della strana coincidenza dell’orario di quando ci eravamo conosciuti, era lo stesso di quel momento. Guardai di nuovo l’orologio, poi alzai lo sguardo… Non c’era più né Gilda né l’uomo! E non c’era più nemmeno la città! Il paesaggio era tutto diverso, una sorta di città con edifici dalle curve dolci e lunghe, lontani fra loro, si estendeva a perdita d'occhio. Ampi spazi formati da immensi giardini con alberi e piante si frapponevano fra le costruzioni. Sembrava un paradiso.
Il mio sguardo fu attirato da una giovane donna ritta su una sorta di pedana volante. La superficie era luminescente e simile ad un tavolo da stiro munito di una ringhiera aperta sul retro. Planò dolcemente verso di me.
«Salve, sei nuovo di qui?»
«Veramente io…» confuso risposi automaticamente «sì.»
«Sei senza piede?»
«Non mi sembra, li ho tutti e due... almeno credo.» Me li guardai, in tutti quegli sbalzi di epoche e situazioni volevo rassicurarmi di essere ancora a posto.
«Intendevo il telemobile, noi lo chiamiamo “piede” perché ci spostiamo al massimo a 40 chilometri l’ora. Si vede che non sei dell’USE.»
La donna aveva due occhi verdi e capelli rosso rame: era uno schianto. Nemmeno un angelo poteva essere così, pensai.
«Sì, non sono del… come?»
«Ho detto USE, ma da dove vieni con questa razza di vestito?»
«Veramente… dall’Italia.»
Ero così confuso che non fui capace nemmeno di dire che venivo da Napoli. Il fatto era che mi sembrava di venire da un’altra Napoli, o meglio, da una Napoli di un’altra epoca.
«Be’, allora sei dell’USE, gli Stati Uniti d’Europa. Anch’io sono italiana. Monta su, mi sembri un po’ spaesato. Dove sei diretto?»
«Non lo so, io… non lo so.»
«Okay, ti porto al rifugio.»
«Rifugio?»
«Casa, vuol dire casa.»
Librare nell'aria senza motore e senza essere chiuso in una cabina era una fra le cose che più avevo desiderato in vita mia.
«Come funziona questo “piede”?» chiesi.
«Con le particelle a tre spin, ma perché non lo sai?»
«Veramente... no» risposi imbarazzato come se fossi in dovere di saperlo.
«Oh, stai combinato bene! È quelle che danno l’antigravità!»
Si voltò verso di me, dal suo sguardo capii che dovevo avere l’espressione di un ebete che sia stato lobotomizzato per diventare ancora più ebete.
«Ma come si mantiene in aria?» chiesi con timore reverenziale.
«Va bene, facciamo la lezioncina, ma sei proprio sicuro di non sapere…» mi guardò di nuovo. «Okay, lascia stare. Sono microsfere formate da particelle a cui diamo tre spin, ovvero tre rotazioni: quella verticale, quella orizzontale e quella in profondità. Girano alla velocità di un elettrone intorno al nucleo. Ora hai capito?»
«Ho capito tutto» non avevo capito niente.
«E dove si formano, qua non vedo nessun motore» aggiunsi di nuovo col timore (di essere scoperto).
«Ce n’è una quantità infinita proprio sotto i tuoi piedi.»
Guardai la pedana sotto i piedi ma non vidi nulla.
«Compongono un piano compatto, non puoi vederle!»
«Quindi non c’è motore, carburante…» dissi con finta sicurezza.
«Non è esatto. Per far girare le particelle a quella velocità occorre una produzione di energia immensa, ci vuole un E-Cat. Con questo “piede” ci puoi volare per un milione d’anni circa, capisci?»
«Sì, certo, e che diavolo è un E-Cat?» stavolta l'avevo detta senza pudore.
«Insomma, non sai proprio nulla!» disse sbuffando. «È un catalizzatore di energia. Mai sentito parlare di reazione nucleare a bassa energia?»
«No» dissi sconfortato.
«Fusione fredda?» disse lei quasi rassegnata.
«Quella sì! Ma è solo un sogno…»
«… che s’è fatto realtà» concluse lei. «Scommetto che non sai nemmeno cosa sono il Singlet di Higgs e i neutrini sterili.»
«Veramente… non lo so.»
Arrivammo in un punto dove non c'erano edifici e senza tanti complimenti cademmo velocemente in giù verso il terreno. Fortunatamente si aprì una botola con apertura a scomparsa larga una decina di metri. Dentro c’era una specie di reggia spaziale tipo la Morte Nera di Guerre Stellari.
«Abiti da sola?»
«Sì, come tutti. Per legge non potremmo entrare in due ma per te farò un’eccezione.»
«Perché?»
«Non lo so.»
M’invitò a farmi una doccia. Lei si era già disfatta della tuta azzurra che le stava incollata sul corpo. Aveva il pube rosso come i suoi capelli. Mi tolsi con finta disinvoltura l’abito di cortesia ottocentesco.
La doccia era una sola.
«Ehm, posso entrare?»
«Certo, non dirmi che vuoi rimanere col sudore appiccicato?»
Solo allora ricordai che non mi lavavo da un bel po’. Entrai esitante, ma solo perché non sapevo se usassero l’acqua calda o fredda. Io ero abituato con quella tiepida.
Ma non arrivò nessuna acqua e lei era già uscita.
«Non funziona? Non fa niente, mi laverò poco alla volta nel lavandino.»
«Ma sei scemo? Sei già lavato!»
«Ma come? Non è uscita neanche una goccia!»
«Sono radiazioni ripulenti modello “Dove” che puliscono istantaneamente, non acqua che scorre. Hai forse dimenticato che l’acqua è finita da cinque lustri?»
«Oh sicuro, sono uno sbadato, scusami.»
Non sapevo che cazzo dire. Ma perché non dirgli tutto? La verità è che non volevo fare una figura di cacchina.
«Tieni, mettiti questa. Con quella roba che hai addosso sembri uscito direttamente dall’anno duemila.»
«Ma questa è da femmina!»
«Da quando in qua ci sono differenze? Le tute sono autoregolanti.»
«Ah, già, è che dalle mie parti…»
«Allora non sei un cittadino. Qua siamo tutti omologati.»
Mi guardò con sospetto.
«Sei governativo? Guarda che ho un laser di classe dieci inserito nel polso» e puntò il suo braccio in direzione della mia fronte allontanandosi di qualche metro.
«No, io non sono governativo e nemmeno parlamentare.»
«Togliti la tuta» mi intimò senza spostare il suo braccio da me. Ma lei non aveva nessun’arma in mano, e sotto la tuta aderente si intravedeva solo il braccio. Comunque per evitare discussioni mi spogliai, e per la seconda volta rimasi nudo. La situazione mi eccitava e purtroppo si vedeva.
«Sta’ fermo.» Iniziò a tastarmi premendo su tutto il corpo. Anche il membro fu stretto, e questo non mi dispiaceva, ma le gonadi no, quelle proprio no.
Me le strinse lo stesso, cazzo, e che dolore!
«Okay, sembri a posto, non hai laser sottopelle ma potresti essere un governativo disarmato per infiltrarti.»
Allora prese a parlare da sola.
«Sono al rifugio, aprite la porta.»
M’aspettavo una pletora di gente arrivare dalla porta d’ingresso quando ricordai che non c’era nessuna porta degna di questo nome. All’improvviso comparvero delle figure indistinte su una pedana che diventarono donne reali.
«Chi sei» chiese la figura di una donna anziana.
«Mi chiamo Salvatore» dissi fra l’intimorito e l’incazzato. La sceneggiata del vecchio mi aveva proprio rotto le palle, se era ipnosi.
«Da dove vieni e chi ti ha mandato» disse stavolta il mio angelo rosso.
«Da Napoli.»
«Napoli non esiste più dal 2025, quando l’eruzione del Vesuvio provocò il crollo di una parete sotto il fondo marino. Uno tsunami alto 300 metri azzerò le province di Napoli, Salerno, Caserta e buona parte di quelle di Avellino e Benevento. Anche le coste del basso Lazio e della Calabria furono sommerse.»
«Non ci posso credere, la mia Napoli…»
«Mi sembra che sia una carta bianca» disse lei rivolgendosi all’anziana del gruppo.
«Sì» fece quella, «puoi abbassare il polso.»
Tirai un sospiro di sollievo, qualunque cosa stesse nel suo braccio non ci tenevo a sapere come funzionasse.
«Tu non sei omologato, vero?»
«Che diavolo vuol dire omologato?»
«Modificato cerebralmente. Nessuno di noi può sfuggire al sistema. Siamo rintracciabili per cui siamo obbligati a seguire le norme di attuazione del TUSP.
«E che sarebbe?»
«Non lo conosci?» dissero in coro un paio di loro.
«Veramente no, mi dovete credere!»
«È il Testo Unico sulla Sicurezza Personale, obbliga tutti a rispettare le direttive e di non uscire dal Sistema.»
«E che succede se qualcuna di voi se ne va dal “Sistema”?»
«Saremmo dichiarate androidi a tutti gli effetti. Una volta catturati dai veivoli robot con indicatori cerebrali, cambierebbero una piccola parte del nostro cervello con un chip e noi agiremmo come macchine pur essendo consapevoli. Le parti del corpo verrebbero sostituite all’infinito, e la vita sarebbe eterna se così si può chiamarla.»
«Bella roba! E non c’è possibilità di uscirsene da questa invidiabile situazione?»
«Solo se non si è omologati.»
Le tipe si guardarono l’un l’altra, poi guardarono tutte nella mia direzione. “Questa storia mi ricorda qualcosa” pensai.
«Tu ci devi aiutare. Noi abbiamo tutti i mezzi ma non possiamo usarli. Sele rischia la pena se scoprono che ti ha portato nel suo rifugio. Anche se qua siamo disabilitate perché il meccanismo è sabotato. Qui risulta sempre su presente-solo anche se ci sono altri.
«Lei sarà pure “presente-solo” ma io sono del “passato-compagnia”!»
«Presente-solo è solo un settaggio di controllo del rifugio. Comunque abbiamo capito a che epoca appartieni, non potevi essere dell’era post-terremoto poiché tutti i napoletani sono stati annientati dallo tsunami. Quelli rimasti sono stati sparpagliati per sicurezza perché troppo creativi, e poi omologati. Tu non sai cosa è avvenuto dopo, vero?»
«No, come posso saperlo?»
«Tutti i separatisti delle nazioni che avevano divisioni al suo interno si unirono in una coalizione che in seguito comprese anche terroristi delle varie ideologie e mercenari scelti fra i migliori al mondo pagati a peso d'oro. Come esordio distrussero le popolazioni di Londra e Parigi immettendo alcuni scarti di plutonio in vari punti degli acquedotti. Poi fu la volta di Vienna, Barcellona, Bruxelles, Lussemburgo, Strasburgo, poi degli Stati Uniti, del Canada… tu non sai cosa è stato. Decine e decine di milioni di morti. Il sistema mondiale finì e ne nacque uno nuovo in mano a questi terroristi e in parte a qualche politico alla loro mercè. Da allora i vari pseudostati si sono confederati in un ordine mondiale diviso in gruppi: USA, Canada, Europa, Australia, Nuova Zelanda, Sudafrica e Giappone formarono il blocco occidentale, poi vennero i blocchi dell'Est, del Medioriente, dell'Asia e altri che non stiamo a dirti. L'Europa fu unita d'autorità e come tutti gli altri blocchi mondiali confederati emanò norme di sicurezza permanenti. I potenti rimasti formarono le nuove lobby economiche e industriali, e insieme ai fanatici e ai mercenari divennero padroni assoluti e incontrastati del mondo. Il sistema di omologazione obbligatoria è stato creato da loro.»


Ultima modifica di Stef il Mer Lug 04, 2012 2:11 am - modificato 1 volta.
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IL VECCHIO - (a puntate in questo post) Empty IL VECCHIO (4^ ed ultima parte)

Messaggio  Stef Mer Lug 04, 2012 2:10 am

Mi venne un attimo di profondo sconforto, non volevo accettare questa realtà, e poi dovevo assolutamente capire dove volessero andare a parare.
«Tu sei l’unico che può aiutarci, la tua coscienza di vero europeo originale ti obbliga.»
«E va bene, tanto lo so già com’è la cosa. È un dovere civico e morale.»
«Esatto. Domani a mezzanotte ti troverai allo spazioporto Elena Start. Sele t’imputerà mentalmente la guida del suo “piede”, e l’itinerario sarà automatico.»
«E poi cosa succederà?»
«Un ufficiale della Polizia di Sistema nostro simpatizzante avrà con sé un computer foglio, è trasparente ed è spesso un millimetro. Su di esso è contenuto un chip che insieme ad un altro chip che si trova nel ricovero 7 provocherà la distruzione hardware e software della Stazione Centrale del Controllo Cerebrale. Il chip che ti darà comporta un rischio rispetto a quello del Ricovero 7: è rintracciabile se in possesso di umani, mentre quello in fabbrica è sicuro perché conservato dal Sistema stesso. Un altro compagno ufficiale della Polizia di Sistema ne detiene la custodia e la manutenzione.»
«Be’, m’aspettavo di peggio. Tolto il fatto che sarò rintracciabile ovunque io vada e che devo entrare in una fabbrica supercontrollata nonché chiedere candidamente dell’ufficiale di Polizia di Sistema e di manutenzione senza farmi notare, non mi sembra tanto difficile.»
«Avrai solo dieci minuti.»
«E ti pareva! Sempre in situazioni strane e complicate mi vado a ficcare, che cazzo!»
«Tu pensa a riposarti, tutte le istruzioni ti saranno inputate nel cervello in una frazione di secondo» e diresse il polso verso di me.
«Già fatto?» dissi con l'espressione della pubblicità dell'Artsana che continuava dicendo significativamente “la siringa niente male”.
«Sì.»
«E dovrò dormire nel fienile?»
Le altre si guardarono interrogativamente.
«Tu dormirai con me» disse la mia amica rossa. «Verrò sul posto anch’io, ti sorveglierò da lontano in caso di bisogno, non preoccuparti.»
Stavolta fu diverso, durante la lunga notte bianca provai cose che alla mia epoca erano inimmaginabili. L’emozione fisica era moltiplicata per cento da sensazioni cerebrali che sconfinavano nel livello spirituale. Per loro sarebbe stato normale conoscersi in quel modo (“conoscersi” era un eufemismo per dire “fare quelle cose”) se non fosse per il fatto che gli era stato impedito da anni dato che il sistema li obbligava a mantenersi in stato di blocco. L’unico modo era l’autoerotismo a impulsi di energia su un’area del cervello, oppure con gli Ufficiali di Sistema che potevano a loro insindacabile discrezione.
Ma lì era settato costantemente in stato di “presenza-solo” per cui anche se vi erano “variazioni” risultava sempre “presente bloccato” (anzi, solo lei, io ero invisibile al Sistema). La riproduzione avveniva con semplici banche dello sperma raccolto con questa pratica, poi la gravidanza avveniva in celle che simulavano il grembo materno. Tutti dovevano collaborare la pena era la robotizzazione eterna.
La sera del giorno dopo, distrutto come una lumaca schiacciata da un tir in corsa, mi ritrovai da solo con l’immagine olografica di un block notes. Portava scritto tutto quello che mi serviva sapere, il resto mi era stato inputato nella memoria come fossi una penna USB. Sapevo tutto quello che sapevano gli altri, non solo sulla guida del “piede” e dell’itinerario, ma anche sugli usi e costumi del sistema e tutto quanto il resto compreso come si scopava (con tanto di demo) che ormai conoscevo già.
Lei doveva fare delle spese e sarebbe venuta sul posto all’orario stabilito.
Per l’orario potevo affidarmi ad un classico orologio da polso al cesio (“classico” per loro).
Arrivai allo spazioporto in tempo, l’appuntamento era a mezzanotte. Nel Sistema si viveva più di notte che di giorno (dato il clima).
Un ufficiale di Polizia mi fermò e mi diede un foglio trasparente arrotolato.
«Buona fortuna» mi disse e si incamminòa allontanando nelle
Cercai con lo sguardo Sele, la vidi raggiante venire verso di me, quando una navicella-robot si abbassò su di lei e disse dal megafono:
«Selene uno, Selene uno, sei pregata di fermarti! Sei accusata di manomissione del dispositivo di presenza del rifugio!»
Lei mi disse di scappare e simultaneamente puntò il polso verso il veivolo robot. Un laser giallo a ripetizione di una decina di centimetri di diametro centrò in pieno il robot polverizzandolo all'istante. Io m’ero riparato dietro un pilastro dello spazioporto. Istintivamente invece di guardare l’orologio al cesio guardai quello da taschino: funzionava! Era mezzanotte, da quel momento avevo dieci minuti per completare la missione…

* * *

Quando rialzai gli occhi dall’orologio mi ritrovai sotto casa di Doriana. Guardai incredulo l’orologio. Il vetrino era integro e le lancette avevano ripreso a camminare. Il vestito era quello di sempre. Mezzanotte in punto, rividi il vecchio.
«Allora signor Salvatore» disse in tono sarcastico, «che ne pensa delle donne e del sistema?»
«Credo sia stata semplicemente una trovata perfettamente riuscita, complimenti. Ma lei chi è veramente?»
«Uno che viene da molto lontano» e s’incamminò verso una stradina secondaria che andava nelle campagne della zona nord della città. Ma prima di andare disse:
«Aveva due occasioni di cambiamento, nel tempo passato e in quello futuro.»
«Cosa? Come i due desideri del genio della lampada?»
«Esattamente signor Salvatore. Ma i desideri non erano due, ricorda la favola?»
E sparì sotto una pioggia caduta improvvisamente.
“Roba da matti” mi dissi.
Doriana credeva nei viaggi nel tempo.
Ora anch’io.

* * *

Guardai la strada davanti, sapevo dentro di me che era inutile cercare di raggiungere il vecchio. Chissà da dove veniva, chissà dove andava, chissà chi era e chissà se lo avrei mai rivisto. Mi voltai, dietro di me stava la mia cara Mini Cooper.
«Salvatore!» mi sentii chiamare. Era Doriana che chiamava dalla finestra della sua camera da letto, stava chiudendo le antiche persiane napoletane. Mi fece una strana impressione quel palazzo, non l’avevo mai guardato sotto quella luce.
«Salvatore, che ci fai ancora qui?»
«Sono stato spostato nel tempo!» urlai per farmi sentire. Lei abitava solo al terzo piano, solo che ogni piano era alto più di quattro metri.
«Non è che sei andato fuori di testa, piuttosto? Aspetta che scendo, penso che abbiamo svegliato mezzo condominio.»
La vidi uscire dal portone, non avevo mai notato quanto la sua figura fosse in ordine anche nella tuta-pigiama. Nonostante l’età si manteneva bene, anzi, più che bene. La sua allegria era contagiosa, e la sua personalità cristallina. Era una che come si mostrava così era. I suoi capelli rossi erano sciolti.
Mi tornò improvvisamente alla mente quel pomeriggio di Ferragosto di anni fà.
Ricordo che eravamo in un villaggio vacanze ed io mi ero innamorato perdutamente di una certa Lucia. Ero così timido che non ebbi il coraggio di dichiararmi per vari motivi che poi erano uno solo, e cioè che non mi sentivo all’altezza. La ragazza, per giunta, si mise con un ragazzo bello, ed era scontato che fosse superficiale. E caddi in crisi. Allora ordinai due whiskey al bar e me li scolai, solo che avevo dimenticato che io ero astemio. Doriana si accorse di me e si staccò dal gruppo degli amici con cui stava festeggiando la ricorrenza del Ferragosto.
«Salvatore, che c’è?»
«Niente» risposi mentre mi dirigevo verso l’auto. Volevo andare fuori, volevo correre lungo la Statale.
«Sediamoci in auto» disse lei mentre apriva adagio la portiera. Caddi come una pera cotta sul sedile. Erano le dieci di sera e stemmo fino alle due di notte. Piangevo disperato e lei passò tutto il tempo ad ascoltarmi, confortarmi, lenire il mio dolore, incoraggiarmi. Fu importante, fondamentale per me, e non solo per quel momento ma anche per altri della mia vita. Ora la vedevo in tutta la sua grandezza, e in tutta la sua bellezza.
«Salvatore?»
Mi destai dal mio ricordo agrodolce di quel Ferragosto e tornai al presente.
«Scusa Doriana, dovrei raccontarti una cosa ma forse è tardi per te…»
«Senti Salvatore, vorrei parlarti anch’io di una cosa.»
«Adesso?» feci io meravigliato. Era tardi per lei che si doveva svegliare presto, in serata aveva detto che doveva andare da un cliente prima che aprisse, e poi stava già in pigiama!
«Ci ho pensato, non c'è molto tempo, penso che dovrei dirti una cosa di me che spero accetterai.»
«Di cosa si tratta?» dissi davvero incuriosito.
«Di una proposta.»
«Oh Doriana, sai una cosa? Mi sono reso conto che tu sei una persona speciale. Forse si tratta della stessa cosa che provo io.»
«Lo spero proprio, non vorrei rimanere delusa.»
«Sono tutt’orecchi» dissi commosso.
«Ti ricordi del gruppo di amiche cui ti ho parlato tante volte?»
«Sì, perché…»
«E ti ricordi quello di cui tante volte abbiamo parlato? Della società che è tutta sbagliata, che deve essere cambiata e anche in fretta…»
«Scusa, scusa Doriana! Mi sono ricordato adesso che mia madre sta molto male e che dovevo andare a fare la notte da lei. Mia sorella sta aspettando me per andarsene! E domani mattina presto ho un volo da Fiumicino per andare in California dal mio amico Gianfranco. È l’ultima occasione per stare un po’ insieme, lui si trasferisce in Nuova Zelanda! Ha prenotato un biglietto anche per me. Ci andrò per stare con lui qualche mese – non lo vedo dalle medie – e conoscere quel continente. Ciao!» e partii a tutto gas.
Non la cercai mai più.

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Messaggio  Analitica Sab Apr 13, 2013 6:16 pm

Beeati anni '70 eh?

Dove non c'erano sistematiche separazioni tra strutture, para e sottostrutture e la comunità,
e dove tutto era possibile,



con l'LSD.

Analitica

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Messaggio  Analitica Sab Apr 13, 2013 8:36 pm

Scusa, non è che c'entra questo "Scienza e Tecnologia - Roma, 12 apr. Ali Razeghi, direttore del centro iraniano per l'Invenzione Strategica, afferma di aver ideato una "macchina del tempo" in grado di predire con accuratezza i dettagli del futuro"?

Non mi fa inviare il link.

Analitica

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Messaggio  Stef Mar Apr 16, 2013 4:52 pm

Tutto può essere, però occorre una certa energia oggi non disponibile. Se parliamo di particelle, allora sì, il discorso è infinitamente diverso.
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