LE NOSTRE PROSE

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LE NOSTRE PROSE Empty Una sera del 1983

Messaggio  Stef Mer Gen 16, 2008 9:44 pm

Una sera di primavera uscivo dopo cena da casa di mia sorella.
Via della Balduina, Roma, 1983.
Era un residence, per uscire si passava sotto un ponte costituito dalle stesse abitazioni.
Guardai verso il cielo: era completamente stellato. Sentii come una mano sul capo, una mano immensa quanto la volta stellare che mi proteggeva. Mi sentii elevato, diverso. Era una serata speciale.
Presi l'auto parcheggiata all'interno del residence ed imboccai la via della Balduina. Erano circa le 23,30, non c'era nessuno in strada ma... vidi una figura da lontano fare l'autostop. La sorpassai, era da un po' che non si vedeva qualcuno fare l'autostop, a quell'ora poi...
Ma era una ragazza! Fermai l'auto e feci retromarcia.
«Salve» disse la ragazza. «Dove va?»
«Io a Corso Francia» risposi.
«Io devo andare al Quartiere Africano...»
«Va bene, posso accompagnarti lo stesso, non ho nulla da fare.»
«Sicuro che non disturbo?»
«Certo, non ti preoccupare. Sali.»
Parlammo di noi. Lei era estetista ed andava per le case, e stava tornando a casa sua. Io ero sub-agente della Onceas, cioè Minolta e Fuji.
Le chiesi come mai non avesse un'auto e lei disse che non era capace di imparare a guidare. Io avevo aiutato diverse persone a fare scuola guida. La incoraggiai.
Parlammo di un sacco di cose, lei sorrideva, si vedeva che era contenta, ed anch'io lo ero.
Quel tragitto era bellissimo. Mi disse il suo nome: Alessandra La Bella (o Labella) ed era davvero bella.
Alla fine arrivammo nei pressi di casa sua. Mi ringraziò e mi salutò con un bacio delicato sulla bocca.
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LE NOSTRE PROSE Empty una piccola precisazione

Messaggio  Stef Mer Gen 16, 2008 9:48 pm

In questo racconto ho volutamente usato nomi e strade reali. Questo nella speranza che Alessandra lo venga a sapere e che mi cerchi.
Nel frattempo ho scritto, suonato, e sarebbe bello poter condividere queste ed altre cose.
Spero di poter raccontare altre storie reali in questo forum dato che è Off-Topics (comunque nel 1983 ero già depresso e mi avevano dato 7 farmaci che dopo due settimane buttai giù dalla finestra).
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Messaggio  marco Gio Gen 17, 2008 5:53 pm

bello stef!
non so,penso che questi siano i migliori ricordi da "ricordare"........
dimmi stef,come mai ti è rivenuto in mente questo episodio della tua vita?
è bello sai,pensare a una storia così mi fa stare bene,anzi mi ha rilassato legger eil tuo post,sarà che sto studiando "il volo del calabrone" che mi rende "nu poco nervusiello2 afro
mi piacerebbe leggere anltri pisodi così,se ne hai gli do un ìocchiata volentieri Twisted Evil
frammenti di vita,quella vissuta,che bello Wink lol! ciao stef!
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LE NOSTRE PROSE Empty I motivi

Messaggio  Stef Gio Gen 17, 2008 11:30 pm

marco ha scritto:bello stef!
non so,penso che questi siano i migliori ricordi da "ricordare"........
dimmi stef,come mai ti è rivenuto in mente questo episodio della tua vita?
è bello sai,pensare a una storia così mi fa stare bene,anzi mi ha rilassato legger eil tuo post,sarà che sto studiando "il volo del calabrone" che mi rende "nu poco nervusiello2 afro
mi piacerebbe leggere anltri pisodi così,se ne hai gli do un ìocchiata volentieri Twisted Evil
frammenti di vita,quella vissuta,che bello Wink lol! ciao stef!

Ci sono vari motivi per cui amo andare nel passato.
A novembre, per esempio, era l'onomastico di mio padre e quel mese è andato al suo bel ricordo.
A dicembre ho sentito il bisogno di riconciliarmi e ho tentato un riavvicinamento con un vecchio amico degli anni ottanta.
Ora sto dando in pasto alla psicologa lettere mie o di ragazze con le quali ho avuto profondi rapporti d'amicizia...
Alessandra la Bella fa parte di una serie di ricordi importanti (anche se è durato solo l'arco di un quarto d'ora o poco più).
Ora non posso dire di più perché mia moglie non riesce a dormire con il ticchettìo della tastiera, ma prossimamente dovrò parlare di Fausta di Scauri (LT) nel 1968 circa - o forse Roma - e di Vittoria Morvillo di San Giorgio a Cremano (NA) nel 1972 circa.
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Messaggio  Nadir78 Ven Gen 18, 2008 11:11 am

Ne hai fritti di polpi, come diciamo dalle nostre parti!!! E bravo Stef! Laughing
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Messaggio  marco Ven Gen 18, 2008 2:13 pm

stef,ma sai che leggerti mi rilassa?
riesco a dare una "voce" alle parole, mi capita raramente..........
a presto allora afro
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LE NOSTRE PROSE Empty Fausta a Scauri (LT)

Messaggio  Stef Ven Gen 18, 2008 11:22 pm

Fausta era una ragazza di 12-13 anni nel 1968, ma molto seria e non si limitava all'aspetto superficiale delle cose. Indagava, chiedeva, cercava.
Non ricordo bene come la conobbi, forse tramite un mio lontano parente (tipo cugino di 2° grado) Enrico Lanzara di Scauri, in provincia di Latina, nel Lazio: doveva appartenere ad una comitiva, comunque alla sfera delle sue amicizie.
Ci vedevamo di pomeriggio, e passeggiavamo per le vie di Scauri. Era piena estate e Scauri era una località di villeggiatura. Non so se Fausta fosse di Scauri (o di Roma venuta lì in villeggiatura). Ricordo che andava a ripetizioni perché era stata rimandata a settembre.
Lei mi chiedeva sempre il perché delle cose. Si parlava molto, lei faceva le domande ed io rispondevo: lei ascoltava attentamente. Teneva molto in conto le cose che le dicevo. Ricordo che l'amore e l'innamoramento erano argomenti molto dibattuti nel senso che mi chiedeva com'è che nascesse l'amore, cosa significava, cosa era... era un interesse vero, direi "scientifico".
Aveva una caratteristica, quando passeggiavamo lei doveva stare sempre alla mia sinistra.

Non l'ho mai più vista da quell'estate.
Intorno agli anni 1975-1976 inviai una lettera all'indirizzo che conoscevo (dove andavo a prenderla): via Olivella n° 3. Ero militare nella Marina Militare presso la Capitaneria di Porto di Gaeta, non molto distante da Scauri. Ma non ho ricevuto risposta.

Non la dimenticherò mai.

Post Scriptum
I nomi, i fatti e i luoghi non sono per niente casuali ma ben reali, alla faccia della privacy.
Spero vivamente che si faccia viva, nel frattempo ne sono successe di cose ed ho una montagna di roba da raccontare, far leggere e far sentire.
stefanostarano@hotmail.com
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LE NOSTRE PROSE Empty Una cosa importante

Messaggio  Stef Ven Gen 18, 2008 11:27 pm

Non ho messo come rintracciarmi casomai Alessandra La bella venisse a conoscenza di quanto scritto: la mia email è
stefanostarano@hotmail.com

Poi a Marco volevo dire che la piazza presso la quale lasciai Alessandra era un posto molto centrale del Quartiere Africano, credo. Mi sembra che confluissero otto vie in maniera simmetrica su questa piazza.

(per Nadir, che vuol dire che "ne ho fatti di polpi fritti"? Io ho solo fatto amicizia e rapporti belli e profondi con questo tipo di persone) Very Happy
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Messaggio  marco Sab Gen 19, 2008 8:22 pm

chissà che fine hanno fatto queste persone,come è la loro vita..............
è dolce cadere in questi ricordi,ma spesso può lasciare un pò di malinconia......................
afro
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Messaggio  Stef Sab Gen 19, 2008 11:53 pm

... può lasciare anche un po' di melanconia. Ma io sono nostalgico delle cose belle.
Poi scrivo anche per te, tu mi hai detto cose bellissime nel rispondermi all'episodio di Alessandra La Bella (o Labella).
Se tu che sei di Roma riesci a rintracciarla (Alessandra), falle sapere che la ricordo e che voglio mettermi in comunicazione. Per quanto riguarda Fausta penso che potrei vedere di andarci io, sono 100 Km, con l'auto non ci vorrebbe poi tanto.
In realtà io ci andai quando ero militare. Ero un sottufficiale della Marina Militare e con la mia bella divisa bianca mi presentai a via Olivella n° 3 chiedendo di Fausta. Mi dissero che stava ai campi di tennis, giocando.
Mi recai ai campi di tennis: non ebbi il coraggio di presentarmi.
Tornai indietro.
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LE NOSTRE PROSE Empty IL DISCO DI STEFANO

Messaggio  Stef Sab Mar 29, 2008 11:41 pm

Lungo il rettifilo (Corso Umberto I, la via che parte da piazza Garibaldi – uscendo dalla stazione delle FF.SS. – e che porta al centro) don Ettore, il vecchio soprannominato “l’ebreo errante”, sedeva a gambe incrociate dietro la sua bancarella abusiva (è un eufemismo, si trattava di un semplice tappeto sporco steso sul marciapiede).
Stefano il vigile lo conosceva appena, aveva la passione per la roba antica che non costasse troppo. In passato aveva trovato qualche libro particolare e qualche 45 o 33 giri in vinile ormai introvabile... nulla di più.
Né lui né nessun altro vigile era riuscito a dissuaderlo dallo stare lì, in quella traversa a semicerchio davanti la chiesa di S. Pietro ad Aram, a vendere quella roba d'antiquariato musical-letterario posata sul vecchio tappeto iracheno da mille e una notte.
Un giorno, un classico successo dei Beatles, spiccava tra gli altri LP. Stefano era quasi certo di averne riconosciuto la copertina: gli mancava.
Chiese il prezzo: era 40.000 lire.
«Donn’Ettore ma siete pazzo? Io con quei soldi mi compro un doppio CD originale» esclamò Stefano scandalizzato.
«Lo so figliolo.»
«Donn’Ettore, sono Stefano il vigile, vi ricordate di me? Non me lo fareste un po' di sconto?»
«Mi ricordo benissimo di te, e ti dico che lo sconto non lo posso fare.»
«E per quale motivo? Siamo a Napoli, non si fanno più sconti agli amici?»
«Il motivo è che questo LP non lo trovi a Napoli, non lo trovi in Italia e non lo troverai in Inghilterra.»
«Riconosco che oggi si stampa tutto in CD ma… non è detto che non trovi qualche vecchio LP dai miei amici appassionati, o sui giornali di annunci, o magari in qualche giacenza di negozio…»
Il vecchio fece una smorfia che voleva essere un sorriso tra il divertito ed il laconico.
«Non questo» ribadì.
«Perché, che ha di speciale “questo”? I Beatles non sono mica una rarità, donn’Ettore. Queste canzoni, se voglio, le trovo pari pari sui CD in vendita nel primo negozio, così come tutte le altre canzoni del gruppo. Esistono fatte in tutte le salse: in originale, in raccolte, in versioni di cantanti famosi… ce ne stanno di inedite e anche di virtuali come “Free as a bird” di John Lennon uscita molto dopo che era morto.»
«Già ma non queste.»
«Ma insomma,» iniziò a perdere la pazienza «si può sapere che ha di speciale ‘stu caspito di elleppì? Per caso fosse stato composto prima che loro quattro si conoscessero?»
«No figliolo, non scherzo. Questo non è stato inciso “qua”».
«E grazie! La loro casa discografica, la “Apple”, è inglese!».
«Non intendevo “qua” per dire a Napoli ma in questo mondo. Questo disco viene da un mondo identico al nostro dove i Beatles non sono mai esistiti anzi, per essere più precisi, sono esistiti ma non sono mai diventati un complesso famoso.»
«Davvero? Mi piace la fantascienza,» rispose Stefano per stare al gioco, «basta che non sia giapponese.»
Vide che il vecchio lo guardava un po’ di traverso.
«È un genere colto e molto vario» aggiunse Stefano, quasi a scusarsi di averlo offeso. «Ma ditemi donn’Ettore, tanto ormai credo di aver capito» – che sei pazzo, pensò Stefano fra sé e sé, – «in che cosa si differenzia esattamente questo LP dagli altri?»

«Questo più che un LP è una prova, una dimostrazione tangibile dell’esistenza di mondi paralleli, di altre dimensioni. Queste canzoni sono solo "in un certo senso" dei Beatles.»
«Quale "senso"?»
«Vedi figliolo, nella variante di quel dato universo queste musiche, in un certo senso matematico, “dovevano comunque esistere”. Anche nel nostro universo esistono perché “dovevano esistere”, ma il senso di tutto questo è molto complesso da spiegare. Le canzoni contenute in questo LP non sono dei Beatles, bensì di un altro complesso, un gruppo napoletano.»
«E allora perché dite che sono dei Beatles, loro non c’entrano nulla.»
«Se le ascolti non la penserai più così, caro vigile Stefano pieno di certezze.»
«Il mio secondo nome è San Tommaso, “toccare per credere” è il mio motto. Fate un po' vedere» fece Stefano prendendo il disco in mano. Era scettico ma curioso. La copertina somigliava terribilmente ad una dei Beatles ma qualcosa non quadrava. I loro volti... Stefano fu preso da una sensazione di nausea terribile mista a un leggero mal di testa. In seguito mi disse di averlo acquistato senza sapere perché pur consapevole che non erano i veri Beatles.
Arrivato a casa li ascoltò ed il mal di testa aumentò: le musiche erano quelle eppure i testi erano in napoletano…
Il giorno dopo il vecchio non c'era più, nessuno sembrava ricordarlo, nessuno lo conosceva, nemmeno i colleghi vigili perché erano nuovi assunti. Inusitatamente un vecchio guardiamacchine che stava seduto sulla sua carrozzella da invalido dinanzi alla chiesa (a vederlo poteva avere sugli 80-90 anni) lo chiamò con voce flebile.
«Dottore, dottore…»
Stefano si voltò «non sono dottore.»
«Dico a tutti così per pura cortesia, ma se volete vi chiamo signore.»
«Va bene, non fa nulla, che volete?»
«Cercate Ettore?»
«Sì, lo conoscete?» l’attenzione di Stefano salì a mille.
«Sì, giocavamo insieme a “tressette col morto” nelle sere d’inverno davanti alle caldarroste che vendeva Carmela. A lui le dava gratis insieme a un buon bicchiere di vino e lui ricambiava con dei quaderni pieni di appunti.»
«Senta, veramente sono in servizio ed andrei un po’ di fretta… sa nulla di come si è procurato un disco a 33 giri dei Beatles o di un complesso simile?»
«Non capisco nulla di musica, tantomeno di quella moderna. Ma, stavo dicendo…» Stefano sbuffò visibilmente seccato, il vecchio sembrò non avvedersene e continuò «… alla lunga siamo diventati amici, sa’, lui si confidava spesso con me dopo la morte di Carmela: era mia moglie.»
«Mi dispiace. E allora?»
«Vedo che va proprio di fretta, dottore. Bene, l’unica cosa che le posso dire è che Ettore se ne è andato come quella famosa volta.»
«Quale famosa volta?»
«Quella del ‘38».
Stefano rimase perplesso, il vecchio parlava disinvoltamente di parecchi decenni addietro!
«Che successe nel ‘38?» chiese scettico.
«Scomparve da Napoli e nessuno ebbe più notizie di lui: un mistero. Eppure non doveva avere problemi economici, e nemmeno di successo: era il più grande fisico teorico italiano del secolo!»
«Come? Ma chi sarebbe?»
«Ettore Majorana. Pensate dotto’ che Enrico Fermi lo paragonò nientedimeno che a Galileo e Newton…»
Stefano stava congedandosi frettolosamente. Era inutile rimanere oltre a parlare con un povero vecchio con inizio di demenza. All’improvviso questi sfoderò dalla tasca della giacca consunta un quaderno nero a righi celesti, i fogli ingialliti dal tempo.
«Ecco, questo me l’ha dato lui!» disse quasi a voler dimostrare la veridicità della sua affermazione.
Stefano se lo voleva far dare in prestito ma il vecchio disse che poteva tenerlo, tanto non ci capiva nulla.
A casa iniziò a leggerlo tutto d’un fiato, non ci capiva troppo, sembravano appunti di fisica o di fantascienza. Fu allora che pensò a me, sapeva che ero appassionato di fantascienza.
Andai volentieri a casa sua, Stefano non era il solito vigile: colto e sensibile era un amico di vecchia data (ma questo non gli ha impedito di declinare in seguito ogni tentativo di farmi prestare il quaderno o di mostrarlo ad altri, e non si può certo dargli torto: probabilmente, anzi sicuramente, costituisce una delle più grandi novità e rarità storico-scientifiche di questo secolo).
Il quaderno conteneva decine e decine di appunti, con tanto di note e date a margine. La prima data risaliva al gennaio del 1938 e l’appunto riguardava una ricerca su mesotroni e yukoni prodotti dai raggi cosmici. Parlava del loro decadimento, della loro rilevazione “in fine range” e roba del genere. Nonostante la mia esperienza, risultavano incomprensibili: era fisica pura, non fantascienza.
Mi colpì una linea che separava il resto degli appunti da quelli stesi fino a una data precisa: il sabato che lui scomparve, il 26 marzo 1938.
La massa di appunti era considerevole ma era un vero modello di ordine, divisi per argomento, muniti di indice e di chiara calligrafia. Ad un esame da incompetente mi sembrarono essenziali, sintetici, direi originali.
Saltai parecchie pagine soffermandomi solo su quelle più comprensibili e senza formule. Eccone qualche riga.
Ottobre 1971, università di Washington: esperimento riuscito con due orologi atomici al cesio, lo scarto è esattamente quello previsto dalle formule di Einstein. Confermata la possibilità di viaggiare nel futuro...
Agosto 1993, Innsbruk, inizio fase sperimentale dell’effetto paradossale EPR Einstein-Podosky-Rose di Anton Slaidinger: due fotoni hanno avuto correlazioni a distanza… (ecc. ecc.) … dimostrata la possibilità di teletrasporto tra fotoni...
Aprile 1994, esperimento C.T.C. “Closed Timelike Curve” di Kip Thorne sui wormholes... successo della dimostrazione teorica sulla possibilità di viaggiare nel passato...
E poi appunti dell’agosto 2000 su teorie spazio-temporali correlate a teorie sulle particelle, sulle superstringhe, sulla lunghezza di Plank, sugli oggetti matematici chiamati spin… (ecc. ecc.).
Poi vidi alcune considerazioni sulle “dimensioni”. Chiamai Stefano intento a preparare il caffè.
«Stefano, qua dice che la teoria della supergravità riesce bene quando viene formulata in un numero di “dimensioni” pari a undici. Non solo, dice pure che i requisiti matematici della supergravità coincidono con i limiti fisici imposti dalla descrizione delle forze.»
«Ebbene, che vorresti dire, che esiste realmente la quarta dimensione che ipotizzò Einstein?»
«Beh, non so se esiste realmente la quarta dimensione, qua di sicuro non vedo scrittori di fantascienza ma solo scienziati. Prendi per esempio questo Brian R. Greene menzionato negli appunti del 1998: parla di ben undici dimensioni spazio-temporali e di ricerca della teoria ultima. Questo tale viene nominato in relazione ad almeno quattro università: Harvard, Oxford, Cornell e la Columbia di New York. Nella stessa nota ribadisce ad un certo punto che la verità più probabile ed accreditata, dal punto di vista fisico-matematico, è che noi viviamo in un universo a undici dimensioni.»
Stefano rimase col caffè in mano senza parole.
«Sai,» dissi «ricordo una frase di Albert Einstein citata in un libro che diceva “lo spazio e il tempo non sono condizioni in cui viviamo, ma modi in cui pensiamo”.»
Stefano mi guardò ed io guardavo lui. Le canzoni che stavamo ascoltando erano proprio quelle dei Beatles, solo con parole diverse: erano in napoletano. Non avevano alcuna attinenza col testo inglese (avremmo appurato poi) ma la copertina richiamava quella di un loro vecchio successo, anzi era quasi identica (altrimenti Stefano non avrebbe comprato il LP). Sopra non c’erano i loro volti, bensì quelli di quattro figuri sicuramente napoletani.
Mi chiesi: era pazzo il vecchio? Era pazzo Stefano? Ero pazzo io? Eravamo pazzi tutti? Forse era tutto un sogno, un’allucinazione. Ma il disco stava lì davanti a me come gli altri vecchi LP di musica Pop inglese, Folk americano e cantautori italiani della collezione di Stefano.
Ed era maledettamente reale.

Email di sabato 9 marzo 2002 18.16

A: "Gianpaolo"
ALLEGATI: Beatles napoletani.mp3; Dimensioni sconosciute.rtf
OGGETTO: finalmente ho le musiche

Caro Gianpaolo,
sono riuscito a farmi masterizzare da Stefano le musiche su CD. Posso quindi registrarle sul mio computer e trasformarle in MP3 per inviarle via e-mail. Naturalmente te ne mando in piccole porzioni perche' i files sarebbero troppo pesanti; mi riprometto di inviarti una copia completa su CD per posta tradizionale, credo che ne valga la pena.
Ora mi sento un po' piu' tranquillo (avrei potuto non essere creduto). Sono 11 brani (nowhere man, please please me, from me to you, she loves you, no reply, tell me why, twist and shout, help!, because, a hard day's night, day tripper): i titoli, come i testi, sono in napoletano e non corrispondono per niente alle parallele canzoni.
Ti allego un pezzettino di Please Please Me (Che guaio si' tu) ed un'altra fetta di appunti che, per lunghezza, non t'avevo inviato prima. Sono considerazioni iniziali (si trovano ancora nell'anno 1938) quando non era ancora giunto alla conclusione delle l0 dimensioni spaziali ed una temporale, e molto prima di quelle prove sperimentali e teorie accennate nella prima e-mail.
A proposito di queste ultime pensavo, chissa' se su internet si puo' trovarne una conferma.
Ciao

… immaginiamo una cosa che abbia una sola dimensione; una linea, ad esempio, «composta di sola lunghezza», senza la larghezza, per quanto sottile la potessimo tracciare, e senza lo spessore della carta o del semplice tratto d'inchiostro che dovremmo usare per rappresentarcela.
E adesso immaginiamo che questa linea abbia la facoltà di pensare. Saprebbe che cos'è la larghezza, che cos'è lo spessore? Ovviamente no, essendo questi concetti del tutto estranei al mondo in cui essa esiste.
Ma «esiste» realmente? No, perché ha bisogno d'esistere in qualcosa che la comprenda; in una superficie piana, che le conceda almeno una larghezza, sia pur minima, senza la quale non potrebbe in alcun modo venir creata e, quindi, non potrebbe essere.
Lunghezza e larghezza; siamo già a due dimensioni. Fantastichiamo d'una creatura intelligente da esse composta, e perverremo alla conclusione che, non conoscendo spessore, non può avere la minima idea di tale concetto.
Eppure nemmeno quest'ipotetica creatura potrebbe esistere, poiché sarebbe ugualmente un nulla; per assumere una forma, dovrà a sua volta essere delimitata anche in un terzo senso, possedere, cioè, uno spessore; eccoci quindi al nostro mondo, caratterizzato da tre dimensioni.
Ma possiamo esser proprio sicuri che le cose si fermino qui? Non ci sorge, da queste considerazioni, il dubbio che anche alle nostre tre dimensioni ne occorra una quarta “in cui poter esistere?”
È un dubbio che si trasforma in certezza nella mente di tutti gli studiosi di questi appassionanti problemi; ma è, d'altro canto, una certezza che non troverà mai una conferma concreta, dato che la famosa quarta dimensione (a cui dovrebbero, a fil di logica, aggiungersene innumerevoli altre, ammessa la progressiva funzione dei «contenitori dimensionali») è e sarà sempre inafferrabile per le nostre facoltà rappresentative, proprio come il nostro mondo tridimensionale non potrebbe in alcun modo essere concepito dalle immaginarie creature senza spessore.
Come e dove potrebbe esistere questa sfera quadrimensionale? Invisibile ed impercettibile, potrebbe trovarsi attorno a noi ed «in noi», allo stesso modo in cui nel nostro universo sono comprese - senza che le loro ipotetiche intelligenze possano rendersene conto - le formazioni ad una ed a due dimensioni…
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LE NOSTRE PROSE Empty Caro Cant

Messaggio  Stef Dom Apr 06, 2008 12:25 pm

Caro Cant,
ti scrivo perché forse potrebbe essere interessante quello che sto per dirti.
Nel racconto IL DISCO DI STEFANO vi si trovano affermazioni scientifiche tutte vere.
L'epoca a cui si riferisce la scomparsa di Ettore Majorana è reale.
Il disco esiste realmente e una copia masterizzata è in mio possesso.
Posso inviartene una copia per posta tradizionale o qualche brano in mp3 per email (però non ho la tua email - la mia è stefanostarano@libero.it).
Infine, se leggerai il racconto, ne sarei onorato: mi farà molto piacere anche perché mi sembra che tu a cultura non stai male e potresti (se vuoi) dare anche un giudizio.
Ciao
Stefano Starano
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Messaggio  canterel II Dom Apr 06, 2008 12:44 pm

la vicenda di majorana è celebre. mi pare se ne sia occupato anche sciascia. secondo alcune ricerche, qualche traccia dello scienziato si sarebbe ritrovata in argentina, credo, o in un altro paese dell'america latina. ad ogni modo nulla di certo, per cui la storia della sua scomparsa resta pervasa da un alone mitico.
anni fa in un negozio di musica ho visto anche un cd di beatles napoletani: il gruppo a cui mi riferisco io sarebbe questo qui:

http://it.wikipedia.org/wiki/Shampoo_(gruppo_musicale)

le molte teorie che citi nel tuo racconto sono vere, ma io non sono un fisico né un esperto di sci-fi e non saprei metterle in connessione tra loro e valutare la coerenza dei riferimenti.
a me è bastato leggere il racconto su un piano superficiale. tolto quindi il cappello finale in cui ci sono tutti i suddetti riferimenti, la cui coerenza con l'insieme non saprei valutare, lo trovo gradevole e spiritoso.
canterel II
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https://www.youtube.com/watch?v=RIOiwg2iHio

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LE NOSTRE PROSE Empty Grazie di avermi letto

Messaggio  Stef Mar Apr 08, 2008 9:46 am

La cosa più importante per me è stato che tu mi abbia letto: un vero onore.
Hai fatto centro! Sono gli Shampoo che mi hanno ispirato il racconto, nonché la misteriosa vicenda di Majorana: la data della sua scomparsa è vera, così come gli studi che stava compiendo.
I riferimenti alle scoperte scentifiche li ho presi semplicemente da riviste scentifiche e comuni quitidiani (quindi sono vere anche se si trattava di semplici esperimenti).
Infine quella email l'ho spedita realmente ad un amico italo americano in California ma cambiandogli il nome.
L'ultima parte, però, quella delle altre dimensioni, è copiata da un libro...
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Messaggio  Stef Gio Apr 10, 2008 8:55 pm

Ho finito un lavoro: un libro che parla del ritorno di Gesù (durato tre anni).
Poi, nella stessa settimana, ho finito un lavoro di raccolta su mio padre (durato 13 anni).
DA UN’IDEA NATA SFOGLIANDO LE SUE CARTE…
don Ernesto
RACCOLTA DI LETTERE, POESIE, CANZONI, ARTICOLI, ONORIFICENZE E STORIA
DI E SU

DON ERNESTO (1908 - 1995)

A CURA DI STEFANO STARANO

Volevo rendervi partecipi perché ora ho potuto concludere questi lavori in quanto sto meglio.
Ciao
un bacione a tutti
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Messaggio  Viola Gio Apr 10, 2008 9:15 pm

C O M P L I M E N T I !!! Ma sei un Panzer !!!....e stai meglio . E se stavi bene che ci combinavi??? Very Happy Appena pubblichi leggerò volentieri.... cheers
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LE NOSTRE PROSE Empty Re: LE NOSTRE PROSE

Messaggio  suggestione Ven Apr 11, 2008 1:41 pm

Complimenti Stef.
Perché hai scelto di scrivere su Gesù?
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LE NOSTRE PROSE Empty Gesù - Se qualcuno lo vuole

Messaggio  Stef Ven Apr 11, 2008 2:21 pm

Se a qualcun altro farebbe piacere leggere sul ritorno di Gesù (reale) mi può scrivere all'email
stefanostarano@libero.it
Ciao e un abbraccio
Stefano Starano
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LE NOSTRE PROSE Empty Sodoma e Gomorra

Messaggio  Stef Mar Giu 17, 2008 12:06 am

DAL LIBRO DELLA GENESI

I due viaggiatori guardarono il terreno. Uno dei due disse:
«Guarda che terreno, non lo calpesteremo mai più.»
«Sai una cosa?» disse l’altro, «perché non ci togliamo gli stivali della tuta?».
«Io direi di toglierci la tuta per intero, qua si respira come da noi.» disse John.
«Okay John.» rispose Paul.
I due si tolsero la tuta e camminarono a piedi scalzi sul terreno verso l’abitazione di Abramo.
«Com’è la situazione?» chiese Paul incuriosito.
«Tanto tempo fa, in una pianura nei pressi del Mar Morto…»
«Ma che fai, l’inizio di Guerre Stellari?»
«Fammi finire. Dunque, lì c’erano cinque città: Sodoma, Gomorra, Adamar, Zoar e Zeboim, la cosiddetta Pentapoli…»
Dopo un tempo considerevole adeguato a non far vedere la nave, giunsero all’abitazione di Abramo.
Faceva un caldo della madonna ed erano le tre del pomeriggio: roba da squagliarsi
«Signor Abramo!»
«Chi è?»
«Be’, se aprite forse potremmo presentarci: abbiamo una comunicazione per voi.»
Abramo guardò da un buco della porta ricavato da un nodo staccato all’altezza degli occhi. Sembravano due persone serie. Finalmente si decise ad aprire ma solo un poco, quel tanto che bastasse per parlare ma non per farli entrare.
I due misteriosi messaggeri non si scomposero per niente:
«Sodoma e Gomorra saranno annientate perché la corruzione è arrivata a livelli limite.»
«John,» bisbigliò Paul, «parla con un linguaggio meno burocratico. Sai che per regolamento dobbiamo essere trasparenti, mettiti al loro livello.»
«Okay, okay.»
«Ehi Abramo, guarda che sono letteralmente rimpinzate dall'empietà dei suoi abitanti!»
«Non è di mia competenza, andate direttamente a Sodoma a dirglielo ai suoi abitanti.»
«D’accordo» e se ne andarono a malincuore.
«Ora ci tocca fare un’altra sfacchinata, ma perché non possiamo usare le navicelle?»
«Lo sai perché, John.»
«Certo, certo. Non possiamo influire sulla loro “civiltà”, chiamiamola così.»
Dopo giorni e giorni di percorso con le razioni quasi esaurite (almeno per quel che riguardava le tavolette di cioccolata al latte fuse dal caldo e il succo di frutta fresco per merito dei thermos – e meno male che gli zaini erano traboccanti di carta igienica e fazzolettini rinfrescanti) giunsero finalmente a Sodoma. Da lontano non pareva male.
Bussarono ad una porta ma sembrava non ci fosse nessuno in casa, o forse non volevano aprire. Cazzi loro.
Bussarono a diverse altre abitazioni ma le persone che aprivano dissero che non c’era posto perché avevano troppi figli, troppe mogli, o che la casa era troppo piccola o addirittura pericolante. Allora si misero in mezzo alla piazza principale e urlarono: «Ehi gente, c’è qualcuno di voi che ci può ospitare almeno un quarto d’ora? Non di più!»
Ma nessuno volle riceverli.
Allora ritentarono col porta a porta.
A Sodoma risiedeva uno straniero, un certo Lot che si dice fosse il nipote di Abramo, figlio di suo fratello Aran.
Egli aveva seguito suo zio nella marcia fino alla terra promessa ove si era separato scegliendo come suo territorio la valle del Giordano e la zona intorno al Mar Morto. Tra quelle città sparse lungo una bella pianura, Lot scelse come sua residenza Sodoma.
Quando arrivarono alla casa di Lot si fermarono.
«Signor Lot!» urlò uno dei due nella lingua ebraica.
«Chi è?» fece questi.
«Siamo emissari della Luce.»
«Che volete da me?»
«Le dobbiamo dare un ultimatum.»
«Siete angeli di Dio?»
I due si guardarono.
«John, penso sia meglio dire di sì, forse questo darà più autorevolezza al messaggio che dobbiamo portare a questi scellerati.
«Esatto signor Lot.»
«Se siete angeli del Signore potete anche chiamarmi Lot senza il “signore”.»
«Facciamola breve Lot,» fece John, «abbiamo l’ordine di distruggere Sodoma e Gomorra.»
«Aspettate un momento!»
Dopo un po’ si affacciò sull’uscio della porta. Per lui erano solo due viaggiatori sconosciuti ma li fece entrare lo stesso.
«Grazie» disse Paul.
«Oh, di nulla, vi avrei fatto entrare lo stesso ma ero in pigiama. Accomodatevi, vi posso preparare qualcosa?»
«No grazie, abbiamo le nostre razioni.»
«Posso almeno lavarvi i vostri piedi?»
I due si guardarono meravigliati.
«Ehi Paul, non sarebbe una cattiva idea.»
«Certo John, a vederli sembriamo della tribù dei piedi neri.»
«Non è questo, stupido, in quanto a questo sulla nave abbiamo i raggi pulenti a total body. Pensavo al fatto di essere rinfrescati.»
«Okay Lot, fai pure.»
«Raccontatemi a quale onore è dovuta la vostra venuta» disse Lot. Era tremante perché intuì che non erano certe belle notizie che portavano. Lavava facendo l’indifferente ma era teso come una corda di violino.
«Abbiamo l’ordine di annientare Sodoma e Gomorra» disse con voce stentorea Paul. Gli piaceva la parte dell’angelo divino, da morire.
«No, vi chiedo pietà, perché dovete farlo?»
«Pare che la corruzione abbia raggiunto livelli intollerabili, ed anche la svalutazione del sesso che è cosa sacra.»
«Ma soprattutto» prese a dire stavolta John con voce più dolce «l’imperdonabile inospitalità degli abitanti di Sodoma. Tutto ciò pare che abbia giocato un ruolo fondamentale nella determinazione divina.» In una parola non siete meritevoli di vivere.»
«Ditemi cosa posso fare per evitare questa strage.»
«Ci trovi dodici persone oneste e non pervertite, e tutti saranno felici e contenti: questi sono gli ordini.»
«Va berne disse Lot, lo farò.»
«Hai ventiquattrore di tempo, se l’ordine non verrà eseguito sarete distrutti.»
I due uscirono nella notte senza farsi notare per evitare che Lot fosse preso per l’unico fesso ad aver ospitato due sconosciuti.

Lot avvertì la popolazione, cercò di convincerli a non fare più cose negative, cercò gli onesti e i buoni, se così possiamo dire.
Passate le ventiquattrore tornarono John e Paul.
«Niente da fare» disse Lot vergognandosi come una commessa al primo bacio.
«Vi chiedo lo stesso pietà, vi prego, risparmiateci.»
Ma mentre trattavano la pace avvenne un fatto antipatico: ai sodomiti venne il ghiribizzo di affollarsi davanti la casa.
«Ehi Lot, chi sono questi?»
«Sono due angeli del Signore.»
«Davvero? Forse è meglio che li mandi via se non vuoi che li inculiamo.»
Lot prese tempo dicendo che avrebbe offerto in cambio le sue bellissime figlie, roba da far concorrenza a Miss Mondo.
«Niente da fare» urlò la folla che si era fatta sempre più tumultuosa. Non parevano affatto intenzionati ad andarsene.
Ora bisogna sapere che l'"onore" delle donne della famiglia era uno degli elementi sulla cui base si giudicava l'onore personale del capofamiglia (e quindi il suo valore come essere umano). Eppure Lot fu lo stesso disposto a sacrificare tale onore pur di non sacrificare l’ospitalità: essa era un onore ancora più importante, sacro. Ergo, la scelta era davvero notevole per un uomo "giusto".
Lot vedendo dove andasse a parare la situazione, disse: «Credo che fareste bene ad andare via.»
«Ottimo consiglio» fece John.
In realtà non si preoccupavano più di tanto, negli zaini avevano una serie di armi da poter distruggere un intero reggimento.
«Senti Lot, un’ultima cosa: secondo gli ordini del “Signore” possiamo salvare solo te e la tua famiglia ma dici ai tuoi di non voltarsi indietro perché le radiazioni “K” hanno uno strano effetto. Anche se non capisci quello che ti diciamo attieniti strettamente alle nostre istruzioni. Indossa questi mantelli col cappuccio, sono di un materiale speciale riflettente anti “K” che vi proteggeranno ma solo da un lato: se qualcuno si volta e scopre la parte anteriore farà la fine di una statua da esposizione al British Museum, chiaro? Il postino non bussa mai due volte, a buon intenditor poche parole.»
«Chiaro» disse tremante Lot.
«T’assicuro che è una fine poco raccomandabile.»
«Va bene, farò come dite.»
I due uscirono dalla porta di servizio e raggiunsero la nave madre.
Aspettarono sui monitor che Lot si fosse allontanato dalla città con tutta la famiglia. Quando la comitiva arrivò alla distanza di sicurezza fu sganciato il primo raggio ad effetto termonucleare “K” che polverizzò Sodoma col suo bel fungo.
Quando diressero il secondo raggio verso Gomorra una delle due mogli di Lot non poté fare a meno di guardare a cos’erano dovute quelle immense esplosioni.
«Cazzo di Dio, quella scema si è voltata senza la protezione della tuta protettiva, adesso assorbirà tutte le radiazioni kappa.»
La moglie di Lot divenne una statua bianca da radiazione “K”.
«Non sentirti in colpa John, noi abbiamo fatto il possibile.»
Il resto è storia nota.
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Messaggio  canterel II Mar Giu 17, 2008 9:48 pm

è parola di stef
rendiamo grazie a stef
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https://www.youtube.com/watch?v=RIOiwg2iHio

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Messaggio  Nadir78 Mer Giu 18, 2008 10:51 am

E camminiamo tutti muro muro!
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LE NOSTRE PROSE Empty Ué ragazzi

Messaggio  Stef Gio Giu 19, 2008 12:18 am

Badate che tutti i riferimenti storici sono reali (vedi Bibbia).
Io non ho fatto altro che renderli un po' più... "moderni lol! ".
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LE NOSTRE PROSE Empty Nel migliore dei modi

Messaggio  Stef Gio Giu 19, 2008 12:20 am

Il fratello non ne voleva sapere. Ma lui insisté.
«Dai, solo una sera, domani ti ridò tutto!»
«Ma sei matto, sai cosa vuol dire?»
«Certo, ma mica son fesso, tu mi conosci, non c’è persona più sicura e fidata di me.»
«No.» fu la secca risposta di Marco.
Luca ci pensò un po’ su. Poi, con fare indifferente, disse:
«Ricordi nostra cugina Fiorella?»
Marco fece finta di non sentire continuando a sistemare le sue cose. Era appena tornato dal turno.
«Credi che interesserebbe all’Arma dei Carabinieri sapere come giocavi da giovane?»
«Che cazzo vuoi dire» rispose Marco.
«Dico che il reparto dei RIS è un bel reparto, sarebbe un vero peccato lasciarlo.»
«Ma che vuoi, che cazzo vuoi tu che sei sempre stato viziato. Che ti lasciassi il distintivo per andare gratis in discoteca?»
«Non me lo sogno nemmeno! Voglio solo rimirarlo: mi affascina la forma del vostro distintivo, ed anche il tesserino.»
Marco finalmente si fermò. Lo guardò torvo.
«Okay,» disse, ma solo per una sera.»
«Finalmente ragioni da vero Carabiniere…»
«Tenente.»
«Oh… scusa, da tenente.»
«Ma guai a te se lo mostri a qualcuno, fosse pure la Madonna.»



Prima che chiudesse l’eliografia Luca entrò. Erano amici, li conosceva da anni.
«Ciao Alvaro!»
«Ciao Luca, qual buon vento ti porta qui?»
«Nulla, devo fare uno scherzo a Maurizio, il mio migliore amico, quello che sta in Polizia.»
«Povero Maurizio, che scherzo vuoi fargli?»
«Solo mettermi in auto con gli occhiali scuri per non farmi riconoscere e mostrare tessera e distintivo di mio fratello.»
«Vostro fratello dei RIS? E lo ha accettato?»
«Certo, sa che devo fare una cosa innocente. Mi svelerò subito, giusto il tempo per fare lo scherzo. Un minuto, nulla più.»
«E cosa possiamo fare noi?»
«Mi serve solo una fotocopia a colori avanti e indietro del tesserino e poi plastificarla.»

Il gioco era fatto. Fu uno scherzo comprare un distintivo simile in un negozio di articoli militari vicino ad una grossa caserma dei carabinieri. E c’era pure il portafoglio dedicato.

La divisa non gli serviva, la pistola giocattolo costò un po’ ma un fabbro amico gli riuscì a togliere la punta a sfera. Ora era perfetta, solo non aveva colpi.

Al mercato dell’usato c’era anche gente poco raccomandabile che vendeva notebook e telefonini. Gli costò un bel po’ avere una vera mitraglietta Skorpio con le munizioni.
Andò al Deposito Postale di Roma Fiumicino.
Entrò senza troppi problemi nel locale dove giacevano i pacchi di alcune dimensioni e peso che prendevano la via aerea di altri continenti.
C’erano solo quattro addetti in divisa da postino.
«Fermi tutti, carabinieri!» esclamò estraendo la pistola giocattolo da una tasca.
Gli uomini si voltarono e lo guardarono impauriti.
«Questa è un’operazione antidroga, non muovetevi!»
«Tu!» fece vicino ad uno di questi, «dimmi come trovare un pacco di posta ordinaria via aerea 32 x 44 superiore di poco ai due chili destinato per l’America.»
«Di là, signore» rispose tremante.
«Cercane uno diretto in California, città di Sunnyvale! Subito, hai capito?»
«Sissignore. Datemi un po’ di tempo, ce ne sono molti.»
«Non me ne frega un cazzo, non ho tempo da perdere!»
L’uomo cercò affannosamente. Dopo circa venti minuti disse:
«Forsel’ ho trovato. È questo?»
Luca lesse il destinatario. Erano tre mesi che quel maledetto pacco non arrivava a destinazione.
«Voltatevi e mettetevi contro il muro!»
I quattro non fiatarono. Luca estrasse la mitraglietta dal borsone e li uccise tutti senza pietà. Poi indossò la divisa più pulita di uno di loro ed uscì col pacco.
«Hei, voi, aiuto, venite qua. Chiamate la Polizia!»
Corsero dei dipendenti mentre lui si diresse verso l’uscita. Nella baraonda nessuno notò il furgoncino che usciva dal deposito.
Luca si fermò qualche chilometro più avanti, prese i suoi abiti dal borsone ed uscì dal furgone. Gettò le armi nel fossato ai bordi della strada infagottati dalla divisa.
«Tassì!»
L’auto si fermò.
«All’aeroporto.»



Sunnyvale non era proprio San Francisco ma nemmeno Bojano. Per trovare la casa dovette cercare un taxi.
L’amico rimase di stucco.
«Luca!»
«Gianpaolo, hai visto! Ho mantenuto la promessa!»
«Che bello averti qui.»
L’accento non era proprio perfetto ma l’italiano non l’aveva perso.
«Adesso potremo andare al bar insieme a prendere un cappuccino con la brioche. A proposito, in California le fanno queste cose?»
«Sì Luca, basta conoscere il posto giusto.»
«Prima però prendi questo, è per te.»
Gianpaolo prese il pacco tra le mani e lo aprì: conteneva quattro libri.
«Che cosa sono questi?»
«È roba fatta in casa: li ho scritti io.»
«Gianpaolo l’abbracciò e disse un “grazie” commosso.
«È per il tuo compleanno, scusa se ti è arrivato un po’ in ritardo. Un disguido postale, sai, ma l’ho risolto nel migliore dei modi.»
Poi andarono al bar, felici e contenti.
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LE NOSTRE PROSE Empty Scuola di Umanità

Messaggio  Stef Sab Giu 21, 2008 12:41 am

«Salve, mi chiamo John Smith, sono maggiore e comandante di questa scuola: voi mi chiamerete solo “maggiore”. Qua vivrete la vita, la sopravvivenza, la difesa del corpo, del vostro vivere, delle vostre emozioni, della vostra emotività e creatività, della vostra mente ed il livello “X” qualsiasi cosa esso significhi: per chi crede lo potremmo definire “spirito.” Non è certo una lezione di religione, questa. Lo capirete ben presto. Qua la sveglia è ogni volta diversa: per domani è alle quattro. È tutto. Non ammetto domande. Buonanotte.»
Rebecca rimase un po’ delusa, a parte che erano solo le sette del pomeriggio ma si aspettava un’accoglienza un tantino più calda anche se militare. Un atteggiamento più accogliente, magari con qualche pasticcino o almeno un panino. A quanto aveva avuto modo di capire dovevano andare a letto digiune.

͸

«Perché dobbiamo stare tutte nude?» chiese Meg della squadra cinque, quella cui apparteneva pure Rebecca. Il reggimento era formato da dieci battaglioni composti ognuno da otto squadre: erano tutte donne.
«Lo capirete presto!» urlò il maggiore Smith.
Ebbero l’orine di seguire l’istruttrice. Arrivarono a una sorta di fiume sotterraneo in una immensa caverna: roba da far paura.
«Gettatevi in ordine di fila, ora!» ordinò il maggiore.
«Ma come,» disse Rebecca, «senza una muta da sub moriremo dal freddo!»
«Niente storie o rimarrete qui nude fino a morire di fame, chiaro?»
Il tira e molla durò un quarto d’ora ma non c’era niente da fare, l’istruttrice non cedeva di un millimetro. Si spogliò anche lei e si gettò senza esitazioni nell’acqua gelida del fiume sotterraneo.
L’istruttrice si alzò a mezzo busto dall’acqua e urlò:«Forza, c’è piede!»
«Caspita» esclamò Johanna, «questi fanno sul serio. Okay.» Si strinse il naso con le dita, chiuse gli occhi e si gettò. Molte fecero lo stesso e, poco alla volta, tutte s immersero.
I movimenti per prender caldo nell’acqua erano formidabili, sembravano dei gatti che stessero affogando.
«Nuotate verso quel masso, forza, non perdete tempo!»
«Ma io non so nuotare! » fece la piccola Sally.
«Domani verrai con me alla vasca di transizione!» disse Smith.
L’esercitazione finì con una doccia tiepida e con camicioni caldi.

͸

«Mi pare una cosa indecente» disse Rebecca con un certo imbarazzo.
Tutte nude su una sorta di “vasino-gabinetto” a tentare di urinare.
Gli istruttori e le istruttrici le infastidivano con colpi di giornale o sguardi fissi e severi che non le lasciavano libere.
«Dovete imparare a urinare nelle condizioni più difficili, preparatevi ad una doccia calda e poi una fredda!» urlò il maggiore Smith.
E così fu. Qualcuna si alzò di scatto, qualcun’altra resistette.

͸

« Ora ascoltatemi bene: avete fatto due mesi di duro lavoro per imparare a paracadutarvi. Ma questo è solo l’inizio. Vi faremo paracadutare in una foresta e lì dovrete raggiungere un obiettivo, un casolare sul vostro percorso che dovrete trovare con la bussola ed occhiali, e rubare senza essere scoperti dagli agricoltori, chiaro?»
«Signore» urlò Johanna, «sono stati avvisati questi agricoltori?»
«No, e sono armati di fucile a pallettoni. Altre domande?»

͸

Dopo gli allenamenti così duri e avventurosi (dove qualcuna ebbe anche qualche disavventura) vennero le tecniche di rilassamento.
«Sai una cosa?» fece Johanna a Rebecca.
«Che cosa?»
«Queste tecniche di rilassamento profondo, di Dinamica Mentale e di Yoga sono una vera palla.»
«Sì, secondo me si salva solo il Tai-chi Chuan e l’Aiki-do » affermò Rebecca.

Molto meglio si dimostrarono le corse con moto sia di vecchio tipo che di ultima generazione. Il motocross poi era davvero stupefacente. Con le auto era altrettanto emozionante ma le sensazioni che dava una motocicletta erano insuperabili. Le situazioni estreme però erano più controllabili con le automobili.

͸

Un giorno dovettero alzarsi alle quattro per… defecare. Non era tanto il fatto di allenare il corpo a farlo ad una certa ora ma il fatto di farlo davanti a tutti! Qua non si trattava di farlo “insieme” ma da sole alla presenza di tutte le altre che dovevano disturbare in tutti modi aiutate dagli istruttori e dalle istruttrici. Suoni improvvisi, getti d’acqua, spinte e sputate in faccia.
«Che schifo!» urlò Rebecca che era la prima del turno, «Ma a che serve?»
«Dovete eseguire gli ordini» disse Smith, «ma per vostra informazione potreste essere prigioniere oppure ostaggi di un gruppo di guerriglieri. Dovete essere pronte a tutto, a ogni tipo di disagi per non trovarvi impreparate.»
Non mancavano le masturbazioni degli istruttori in bella mostra: naturalmente non erano nella loro direzione. Ognuna doveva subire le stesse umiliazioni apparentemente inutili. Dopo un certo tempo, con i giorni e le settimane, riusciva più facile, non proprio un divertimento ma nemmeno un dramma.

͸

Più difficile fu imparare a scalare un palazzo. La sera non andarono più a dormire se non in quel modo dopo aver fatto un campo di diciotto chilometri con uno zaino di quaranta chili sulle spalle e una dotazioni di armi della più avanzata tecnologia. Non si fermavano sotto la pioggia battente o un sole asfissiante, o esposte a un vento gelido che penetrava nelle ossa.
«Ehi!» fece Johanna «qua c’è merda di vacca.»
Erano nel percorso dove si strisciava: si trattava di lunghi tratti dove non potevano alzarsi né deviare.
«Non fa nulla, non morirete certo per un po’ di merda,» fece John Smith. «Poi fa pure bene. E ora continuate!»

͸

La messa in allarme divenne una vera tortura: poteva avvenire in qualsiasi ora della notte o del giorno e bisognava essere pronti in assetto da combattimento in dieci minuti, compreso il tempo necessario per trovarsi in perfetta formazione nel piazzale.
«Cazzo» fece Rebecca sottovoce, «nemmeno il tempo per pisciare.»

͸

La mattina si cantava un inno esaltante, che usciva dal ventre e che finiva con un urlo secco simile a quello usato nel Karate.
«Quando colpite un uomo dovete avere un’idea precisa nella vostra mente, anzi, un’immagine concreta e reale: trapassare il viso o il torace del vostro avversario, chiaro? Provate con queste tegole!»
L’allenamento non prevedeva fallimenti ma solo prove su prove finché l’allieva non riusciva a farcela.
«È necessario che voi percepiate le intenzioni del nemico. Dovete sviluppare l’intuito al massimo, esercitarvi sul livello emozionale. Dovete capire le intenzioni guardando gli occhi, annotando la sua posizione, la convergenza dei piedi, del corpo, della testa e del rapporto fra tutti questi fattori. Vi allenerete per questo per altri tre mesi.»
«Devo dire» disse Rebecca a Johanna « che i corsi di autodifesa sono la parte più bella e gratificante.»
«Questo è poco ma sicuro» disse Johanna, «queste tecniche sono il frutto del meglio di tutte le arti marziali e dell’esperienza dei più grandi maestri, e sono state migliorate da simulazioni fatte da computer più avanzati. L’ha detto Smith.»
Sulla difesa personale si puntava di più. All’inizio era mezz’ora al giorno, poi dopo una settimana un’ora e infine,alla terza settimana un’ora e mezza: questa era la preparazione. Dopo pochi mesi non si capiva più dove iniziasse e dove finisse. Praticamente si arrivò al punto che la giornata era permeata così tanto dall’allenamento che le mosse divennero più naturali del respirare.

͸

La parte più tosta fu un’altra, inaspettata: subire una violenza sessuale perfetta.
«Ora dovrete affrontare l’ultima prova, o credevate che stessimo giocando?»
Smith fece una breve pausa guardando le allieve dall’alto in basso.
«Ascoltatemi bene: per voi dev’essere tutto vero, come una violenza reale, è chiaro? Gli istruttori maschi sono dotati di membri in gomma dura applicati ad un cintolo ad altezza reale, voi starete in costume da bagno. L’obiettivo degli istruttori sarà il centro delle vostra gambe, non la vagina, ma per voi non cambia nulla! Non dovete assolutamente permettere che l’atto venga compiuto, piuttosto la morte!»
Le donne rimasero immobili, stese sui materassini predisposti: la posizione non era delle più favorevoli, specialmente considerando che gli istruttori stavano in piedi ed erano anch’essi esperti di difesa personale.
«E ora gridate: “piuttosto la morte!”»
Tutte gridarono convinte. Molte erano state violentate veramente nella loro vita, altre invece erano vergini e non avvezze a nessuna forma di sesso, altre avevano dovuto subire la schiavitù della prostituzione: nessuna mancò all’urlo.
Le azioni furono veloci e senza esclusioni di colpi, da una parte e dall’altra.
Nessuna donna perse il combattimento ma questo fu dovuto alla convinzione, non alla preparazione.
«Cavolo,» fece Johanna, «questa è stata davvero emozionante.»
«Lo puoi dir forte, io ho provato la netta sensazione che mi volessero violentare. »
Poi fu la volta della prova più difficile in assoluto, la violenza di gruppo: ben otto istruttori contro una donna sola.
In questa prova le allieve si batterono eroicamente e con tutte le tecniche apprese. Molte persero ma con onore, alcune vinsero ma con escoriazioni ed ematomi. Naturalmente nessuna fu violentata sul serio: l’esercitazione fu più realistica della prima.
Questa prova fu ripetuta più volte alternandola con aggiornamenti delle tecniche di difesa.
Poi si passò alla tecnica della difesa in spazi ristretti come ascensori o cabine telefoniche: stranamente risultò più complessa delle altre prove.

͸

Alla fine del corso il comandante John fece mettere tutte sugli attenti.
Le guardò passandole in rassegna una ad una.
«Ci sono sei passaggi di cui non abbiamo mai parlato e che dovrete rispettare in modo assoluto. Primo amare voi stesse, secondo amare l’altro concretamente e in vari modi: essere utili, ascoltare veramente, far ritrovare se stessi, tentare di creare un corpo unico fra le persone incominciando da voi del corso. Questo può significare, se vi capita, di fare servizio alla gente afflitta, ammalata, allo stato terminale, anziana. Dovete essere pronte ad aiutare sempre, a qualsiasi ora del giorno e della notte. Un depresso può chiamarvi alle tre del mattino, e voi lo dovrete ascoltare o dovrete andare anche a casa sua. Ma c’è un’altra parte che dovrete rispettare, quella per cui siete state preparate: neutralizzare l’avversario, sia che questo significhi immobilizzarlo, sia che dobbiate ferirlo.»
Il maggiore John Smith fece una pausa guardando negli occhi le donne in fila. Ora era fermo, al centro del piazzale.
«Se assolutamente necessario» disse fermandosi ancora una volta «dovrete uccidere, senza esitazioni. »
Aspettò eventuali reazioni ma nessuna parlò.
«Il vostro dovere principale però è fare prevenzione affinché capiscano, con le buone o con le cattive, una cosa fondamentale: commettere un reato sessuale non conviene a nessuno. È per il loro bene che voi agirete, in fondo questa è una scuola di umanità.»
A Rebecca e alle altre sembrò di scorgere un velo di commozione ma il maggiore subito si riprese.
«Fra poco uscirete, il corso è finito. Questa non è un’esercitazione, è la vita: a voi viverla.»

͸

Rebecca e Johanna si abbracciarono mentre Meg e la piccola Sally piangevano. Tutte le altre della “squadra cinque” guardavano commosse e partecipi. Istintivamente presero tutte insieme a cantare l’inno esaltante che finì con un urlo secco.
Il maggiore John Smith stava nel suo ufficio con gli istruttori.
«Signori, è finito un altro corso. Peccato, amavo quelle ragazze, forse sto diventando vecchio.»
«No signore, anche noi ci eravamo affezionati e poi lo sapete, molte torneranno per essere arruolate come istruttrici.»
La riunione finì. John Smith si chiese se fosse giusto addestrare così duramente delle giovani donne, poi con la memoria riandò a quindi anni prima, quando sua moglie fu violentata e uccisa.
No, non avrebbe mai smesso di fare quei corsi nemmeno se fosse morto.
“Domani è un altro giorno”, pensò sorridendo, e andò sul divano a riposare, e riposò col sonno del giusto.
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LE NOSTRE PROSE Empty Una giornata come le altre

Messaggio  Stef Ven Giu 27, 2008 12:44 am

Era una giornata come le altre, una giornata di merda.
Dovevo vedermi col collega del Vomero, questa era la nostra zona.
Faceva un caldo cane, il sole era offuscato e l’umidità cospargeva la pelle rendendola impermeabile come una muta da sub, senza alcuna traspirazione.
Stavo procedendo sul raccordo che mi avrebbe portato alla tangenziale provenendo dal Villaggio Coppola. Per confortarmi portai i miei pensieri a quando facevo servizio di viabilità. Pioggia, tempeste e freddo d’inverno erano esperienze passate: anche quando portavo le maglie a maniche lunghe di lana del Corpo e i mutandoni lunghi di lana (nonché la divisa con il pullover del Corpo e sopra un Evan Pull portato da casa - roba da nautica da diporto - e sui mutandoni mettevo il pantalone del pigiama invernale, e ancora gli stivaletti e i calzettoni di lana del Corpo che completavano l’equipaggiamento) dopo un paio d’ore un gelo agghiccante penetrava inevitabilmente nelle ossa. Ma l’estate era ancora peggio. Il cappello diventava insopportabile e la divisa si incollava addosso. Una volta una collega incinta svenne per un colpo di sole: poiché stava nei primi masi di gravidanza rischiò di perdere il bambino.
Non ho mai capito perché gli agenti di viabilità non avessero un’indennità di disagio particolare: misteri della pubblica amministrazione.
Comunque ora stavo nella mitica U.O.S.A.E., l’Unità Operativa Speciale Antiabusivismo Edilizio. Lì fortunatamente si stava in abiti civili. In effetti era necessario perché se fossimo stati in divisa, gli operai sarebbero fuggiti ed allora il sequestro, senza conoscere il responsabile, diventava un vero problema. Fermando un operaio si riusciva sempre a risalire al proprietario.
Poi c’era di bello che la mitica U.O.S.A.E. era una vera squadra di Polizia Giudiziaria il ché era gratificante. In verità era anche molto rischioso: si aveva a che fare con avvocati, magistrati, camorristi, professori universitari… insomma, tutti i tipi di gente, e se sbagliavi anche di poco erano guai seri: si poteva anche perdere il posto (nei casi della malvivenza anche la vita). Ma il vero dispiacere era quando capitava la povera vecchina che aveva racimolato appena i risparmi per sistemare il figlio e la nuora disoccupati: noi non risparmiavamo nessuno ma in quei casi non si poteva fare a meno di provare pietà, e questo faceva male.
Nonostante il servizio che svolgevamo fosse di un certo livello, c’era poca gratificazione: la gente ci vedeva come giustizieri senza pietà, alcuni magistrati pretendevano voli pindarici (molti altri però apprezzavano il nostro lavoro e la nostra professionalità veramente), gli avvocati durante le cause mettevano noi sotto processo, alcuni colleghi ci invidiavano, gli stessi superiori a volte non ci gratificavano (almeno quelli più alti perché più “lontani” dalla complessa realtà dell’abusivismo edilizio). Per questo alcune giornate diventavano più pesanti, e questa era una di quelle.
Il paradosso era che io e il collega godevamo del servizio esterno un giorno sì ed uno no. Ma ciò si era rivelato un boomerang: “dovevamo”, secondo il coordinatore, produrre di più perché avevamo più tempo a disposizione. Bel vantaggio.
Quasi quasi invidiavo altre squadre speciali che aveva il Corpo dei Vigili urbani. Ce n’erano così tante quante erano le specializzazioni ma sicuramente ognuna aveva i suoi vantaggi e i suoi svantaggi. Certo il mestiere di Vigile era di quanto più vario esistesse: ci sarebbero volute decine di lauree per svolgere tutti i compiti.

Stavo un po’ in ritardo ma l’unica cosa che mi preoccupava era il collega col quale avevo appuntamento: era un fissato della puntualità e arrivava sempre in anticipo. Comunque era un bravo cristiano e collaborava in pieno. Era anche preparato in materia giudiziaria perché proveniva da una squadretta specializzata in soccorso dei colleghi in difficoltà.
Procedevo a una velocità forse un po’ sostenuta ma quel tratto della Solfatara lo conoscevo come le mie tasche.
Vidi un’Audi color canna di fucile ferma sul ciglio del raccordo: strano, non era un posto felice, forse stava in difficoltà. Rallentai. Vidi anche uno scooter per terra e… Cristo, una ragazza che veniva trascinata da quattro individui sull’auto! Feci delle connessioni mentali in pochi attimi e mi figurai la scena: l’auto aveva speronato lo scooter per rapire la ragazza che stava alla guida.
Data la velocità dovetti superare il luogo dell’ “incidente” ma mi fermai appena potei.
Aspettavo che ripartisse l’auto per intervenire: certo da lì dovevano passare!
Guardai il meglio possibile per essere pronto ma l’auto non si muoveva. Diventai nervoso, sudavo per la tensione e per il caldo soffocante. Ero anche emozionato, avevo la pistola ma non l’avevo mai usata se non al poligono.
Cristo, come avrei voluto essere con il collega, con qualsiasi collega. Ma ero solo e dovevo intervenire.
Presi il telefonino per avvertire il Comando quando vidi l’auto muoversi. Lasciai il cellulare sul sedile e innestai la marcia pur essendo fermo: pensai che potevo sbarrargli la strada bloccandoli e scendere con la pistola in pugno.
Quelli sgommarono e mi presero alla sprovvista. Riuscii a sbarrargli la strada ma capirono che volevo framrli. Fecero un testa coda e… cazzo, fecero inversione di marcia!
Rimasi come un baccalà vedendoli procedere contromano sulla tangenziale e mi ci volle qualche secondo per realizzare quello che era successo: volendoli inseguire dovevo procedere anch’io contromano. Ma non era uno scherzo, io non avevo un’Audi ma una vecchia Panda.
Decisi e tentai il tutto per tutto. Stavo facendo l’inversione ma un autobus turistico suonò col clacson e mi fece cacare sotto, come si suol dire a Napoli. Dovetti aspettare un momento di pausa del traffico: ma perché nella realtà i cattivi hanno sempre strada libera e i buoni tutti gli ostacoli? Nei telefilm non succedeva così!
Procedevo contromano ma con una certa prudenza, nonostante questo molte auto deviavano all’improvviso o sbandavano addirittura. L’Audi non era più visibile ma contavo sul fatto che anche quelli dovevano procedere contromano e non potevano andare velocissimo. A un certo punto la vidi: stava entrando contromano in un ingresso del raccordo: li seguii. Per fortuna non c’erano auto in entrata, sarebbe stato un disastro.
Una volta su strada l’auto mi seminò ma io continuai. Dopo qualche minuto vidi da lontano delle auto ferme di traverso la strada: erano l’Audi e una Smart che si erano scontrate.
Scesi immediatamente dall’auto e mi avvicinai con la pistola puntata.
«Fermi, Polizia Municipale!»
L’Audi era vuota. Mi avvicinai al conducente della Smart.
«Dove sono quelli che stavano nell’Audi?»
«Sono scappati verso quella campagna, là, a sinistra! Quei maledetti correvano come pazzi, mi potevano uccidere.»
Non sapevo bene cosa fare, io non li vedevo. M’incamminai verso la direzione che mi aveva indicato l’uomo. La vegetazione era alta e incolta.
Correvo quanto me lo consentisse il terreno ma io continuavo a non vedere nulla. A un tratto vidi qualcosa, un movimento vicino un casolare. Mi acquattai per non farmi vedere. Il casolare confinava con una strada di grossa comunicazione.
Approfittai dell’attesa che succedesse qualcosa per poter chiedere aiuto col cellulare. Misi la mano nella tasca dello smanicato e… cazzo, l’avevo lasciato nella Panda!
Ero davvero ansioso, angosciato. Non sapevo se quei bastardi erano armati, non sapevo come agire e se agire: avrei potuto compromettere l’incolumità della ragazza. Mi avvicinai cautamente. Udii delle urla: erano di donna! Corsi verso il casolare quando mi accorsi che c’era uno di loro a fare da palo. Era armato con una grossa pistola a tamburo. Non mi aveva visto. Aggirai da lontano il casolare finché mi trovai dalla parte opposta dove l’uomo non mi poteva vedere. Stavo a ridosso della strada, le auto passavano indifferenti o spaventate da me con la pistola in mano. C’era una finestra. Guardai dentro con prudenza: stavano strappando senza pietà i vestiti della ragazza. A giudicare dall’apparenza non doveva avere più di ventisei, ventisette anni. Uno degli uomini stava slacciandosi la cintura dei pantaloni. Stavo entrando dentro dalla finestra quando udii il rumore di un caricatore, anzi due! Forse il palo s’era accorto di qualcosa ma non esitai: senza guardare saltai dentro. Urlai con quanta voce avevo in corpo.
«Fermi, Polizia!»
Gli uomini, per niente spaventati, sorrisero. Uno impugnava una pistola di grosso calibro e gli altri subito estrassero le loro. Erano cavoli amari!
«Butta la pistola, merdaiuolo» disse uno. Io non la buttai, avrebbero sicuramente ucciso me e violentato la ragazza. Ci puntavamo le pistole uno contro l’altro ma loro erano in tre, ed io ero solo. Potevo sparare ma loro avrebbero avuto il sopravvento. Fermai il pensiero ed agii: mi gettai per terra e sparai. E successe il finimondo.
Rimasi ferito alla spalla destra ma non sentivo dolore, loro erano tutti giacenti per terra, qualcuno lamentandosi, gli altri immobili, morti probabilmente.
«Ehi collega, tutto a posto?»
Due vigili motociclisti si sporsero all’interno della finestra.
«Uh, oh… sì, sto bene, solo un buco nella spalla. Ma voi da dove siete usciti?»
«Da un telefilm poliziesco. No, scherzi a parte, avevamo visto te con una pistola in mano entrare in questo casa diroccata e abbiamo pensato che fossi un criminale. Poi ci siamo avvicinati e abbiamo sentito parlare. La ragazza nuda per terra ci ha fatto capire tutto.»
«A proposito, colleghi» s’era ricordato che i malviventi erano in quattro, «c’è un altro dietro la casa!»
«Cosa? Allora andiamo» disse il collega.
«Tu rimani con la ragazza» mi disse.
«No, io vengo con te per vedere che fine ha fatto l’altro bastardo. Adesso ho un conto personale aperto.»
Il motociclista mi guardò per un paio di secondi, io cercai di non mostrare il dolore che nel frattempo m’era venuto.
«Okay, rimani tu Raimondo, io e lui andiamo a prendere il merlo.»
Corremmo per le campagne come pazzi, io ero ferito. Mi dovetti fermare, il collega continuò.
Stavo piegato in due e mi stesi sul terreno premendo con una mano la ferita.
«Né, omme ‘e mmerda, alzati!»
Cazzo, l’uomo mi puntava la pistola addosso ed io ero rimasto solo. Il pensiero e l’azione furono un tutt’uno: diedi un calcio nelle palle e mi rialzai. L’uomo si lamentava per il dolore ed io ne approfittai per allontanare la sua pistola. Gli puntai la mia con la mano sinistra.
«Ora chi è l’uomo di merda?» feci io.
Lui mi guardò torvo e mi disse: «Sai quante me ne sono fatte?»
Io non risposi.
«Me ne sono fatte a decine e pure più giovani, stronzo. In galera non mi farò più di qualche mese o qualche anno, poi uscirò e ti ucciderò.»
Io avevo l’arma puntata su di lui e pensai: quello che diceva era vero, forse avrei dovuto sparare. Ma sarei andato io in galera.
L’uso delle armi, pensai, già, l’uso delle armi… l’uso “legittimo” delle armi. Mi ricordai del corso per Vigile Urbano. L’uso legittimo delle armi era ammesso solo in sei casi ma non ero sicuro. Di tre casi ero certo: omicidio volontario, rapina a mano armata (ma non durante la fuga) e sequestro di persona a scopo estorsivo. A scopo estorsivo, non per violenza carnale, eppoi quel farabutto non stava nell’atto di violentare, né in nessuno degli altri casi. Non potevo sparare ma ne avevo una voglia pazza. Sentivo di star perdendo il controllo: una parola di più e avrei sparato.
«Spara ricchione, fammi vedere che omme ‘e merda sei.»
Non ci vidi più, gli puntai la pistola in fronte.
«Va ‘ffanculo, questa è per tutte le ragazze che hai violentato!» urlai.
«Collega!» il motociclista mi guardò, era tornato sui suoi passi. Senza dir nulla prese le manette e bloccò l’uomo.
Mi accompagnarono all’ospedale di Pozzuoli per la medicazione. Firmai per uscire e poi andammo tutti al Comando della Polizia Municipale del luogo.
Non fu una giornata come le altre. Non lo fu per niente ma non per il rischio corso e nemmeno per l’avventura passata. Ero cambiato, ora sapevo che potevo uccidere.
L’avrei fatto.
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